Cosa accade se un Amministratore non ha i requisiti?

Quella dell’amministratore di condominio è una figura molto complessa che ha oggi connotazioni normative del tutto nuove, sconosciute al codice del 1942.
“Un ruolo che allora era indefinito, quanto a forma e caratteristiche, è stato oggi disegnato dalla L. 220/12 e dalla L. 4/2013, che hanno profondamente inciso sulle caratteristiche necessarie per svolgere l’incarico.
L’art. 71 bis disp.att. cod.civ., introdotto dalla legge 220/2012 disciplina i requisiti per lo svolgimento dell’incarico, mentre la L. 4/2013 prevede quelli richiesti per esercitare in forma professionale l’attività”. Ma cosa accade se un Amministratore non ha i requisiti?
Innanzitutto, c’è da dire che entrambe le normative non si coordinano affatto tra di loro a lasciano parecchio perplessi, poiché introducono aspetti simili ma non del tutto e non sempre coincidenti fra di loro.

Se l’amministratore non ha i requisiti la sua nomina è nulla?

Senza dubbio il legislatore di questi anni ha inteso riconoscere all’amministratore una valenza sociale e una rilevanza significativa quale strumento di tutela di interessi diffusi, pretendendo che la figura destinata al compito delicatissimo e complesso di gestire una rilevante componente del patrimonio immobiliare nazionale possieda parametri di affidabilità e professionalità, così come delineati dalle nuove norme che travalicano il mero rapporto privatistico che intercorre con i condomini che conferiscono l’incarico. 
Vi è quindi chi ha letto nella normativa in vigore la caratteristica di norma imperativa, estendendo tale natura non solo alle previsioni con più certa valenza pubblicistica che regolano lo svolgimento della professione ma anche alle disposizioni contenute nell’art. 71 bis disp.att. cod.civ., così che per alcuni interpreti la mancanza dei requisiti dettati dal codice civile comporterebbe nullità della nomina per contrarietà a norme imperative e – per alcuni lettori estremi – anche nullità di tutti gli atti compiuti dall’amministratore che dovesse trovarsi a svolgere l’incarico in assenza di tali requisiti. 
Taluno ha richiamato anche la c.d. nullità di protezione, che deriverebbe dall’art. 36 del c.d. codice del consumo, tesi che avrebbe peraltro possibile applicazione solo ove il l’amministratore abbia dolosamente occultato l’assenza dei requisiti e non ove l’assemblea abbia deliberatamente accettato quella assenza“.
Queste posizioni, che non sono per nulla prive di suggestioni, rischiano però di assumere una connotazione estrema nonché di apparire poco legate al dato testuale; soprattutto il richiamo ad un vizio grave e radicale come la nullità della nomina, introduce delle conseguenze molto gravi dagli esiti imprevedibili: per questo motivo si rende del tutto necessaria  una disamina diversa e più ponderata, soprattutto da chi pretende di porsi dalla parte dell’amministratore, che ha di recente e finalmente “trovato una disciplina che – seppur assai perfettibile – finalmente ne riconosce il ruolo e la professionalità“.
Appare quindi del tutto plausibile “che l’amministratore di condominio debba rispondere a parametri che – travalicando il mero interesse civilistico – assicurino alla collettività che quella figura sia rivestita da un soggetto che garantisce affidabilità professionale, patrimoniale e personale. L’intero impianto della L. 4/2013 modula la figura dell’amministratore professionista su parametri astrattamente riconducibili alle professioni ordinistiche, con controlli a natura pubblicistica su formazione, onorabilità, tutela del consumatore, aggiornamento, ovvero tutti quei requisiti che paiono idonei a soddisfare quegli interessi pubblici e diffusi che il legislatore mostra di voler tutelare. Si può discutere se il metodo scelto sia idoneo allo scopo, ma è indubitabile che la legge sulle professioni non ordinistiche sia volta a garantire erga omnes la qualità del professionista.
Tale normativa viene emanata nel gennaio 2013, a pochi mesi di distanza dalla legge 220/2012 che prescrive a sua volta parametri assai vincolanti anche per lo svolgimento dell’incarico; appare improbabile che il legislatore abbia manifestato così tanta schizofrenia – sovrapponendo normative inconciliabili – così che assimilare i due testi in una unica lettura a carattere pubblicistico potrebbe essere fuorviante: in realtà l’art. 71 bis disp.att. cod.civ. prevede alcuni requisiti di onorabilità e alcuni requisiti culturali per svolgere l’incarico. L’uso del termine “svolgere” e non di quello “assumere” sembra spostare l’attenzione del legislatore civile sul momento di esecuzione della prestazione e non su quello genetico della stessa. 
A ciò si aggiunga che la stessa norma prevede – per il solo venir meno dei requisiti soggettivi di onorabilità – il rimedio espresso della cessazione dall’incarico, mentre nulla prevede ove non sussistano quelli relativi alla formazione.
Se il rimedio della cessazione appare di lineare applicabilità ove i requisiti vengano meno durante lo svolgimento dell’incarico (condanna passata in giudicato, protesto cambiario, etc.) ci si chiede quali conseguenze comporti l’assenza di tali presupposti sin dal momento della nomina, ovvero in quei casi in cui l’assemblea intenda coscientemente nominare amministratore un soggetto che non risponde a tutti i parametri della norma“.

Ecco cosa accade se l’amministratore non ha i requisiti

In tal senso, viene in aiuto un’ autorevolissima dottrina che afferma “che la previsione contrattuale che violi norme imperative (ammesso che all’art. 71 bis disp.att. cod.civ. debba riconoscersi tale natura) non riconduce necessariamente all’applicazione rigida dell’art. 1418 cod.civ. in tema di nullità del contratto, poiché la stessa norma nullità prevede che tale gravissimo vizio colpisca il contratto solo ove espressamente la legge lo preveda. Nello stesso solco interpretativo si pone un rilevante orientamento giurisprudenziale che ascrive alla categoria alla c.d. nullità virtuale tale ipotesi: “in difetto di espressa previsione in tal senso (cd. “nullità virtuale”), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, la quale può essere fonte di responsabilità” Cass. 2394/2015.
Il tema è complesso e richiede un approfondimento che travalica i limiti di queste riflessioni, tuttavia appare assai plausibile – alla luce degli orientamenti appena rammentati – una lettura che si discosti dalla tesi della nullità e si arresti al dato testuale della cessazione dall’incarico, tenuto conto che la stessa norma non ascrive la necessaria presenza di quei requisiti al momento genetico del rapporto ma al suo svolgimento, con il prodursi degli effetti della loro mancanza nel momento dell’adempimento e sul piano dell’efficacia e della responsabilità fra contraenti, categorie che anche sotto il profilo sistematico appaiono più pertinenti alla collocazione e connotazione civilistica della norma di attuazione“.
Ne consegue che, se l’amministratore non ha i requisiti, l’Assemblea può ricorrere al giudice per far dichiarare inefficace la sua nomina, e pertanto far cessare immediatamente la sua attività. ricorrendo all’art. 1105 cod. civ. nel caso in cui non si riuscisse a nominarne subito un altro.
Va ancor più sottolineato che la sola assenza dei requisiti culturali, che il legislatore mostra di considerare di minor rilievo non ancorando alla loro mancanza alcuna sanzione diretta e addirittura considerandoli superflui per il soggetto che amministri uno stabile in cui ha una proprietà, non è munita di sanzione diretta. A tal proposito va sottolineato che per taluni interpreti la mancanza di queli requisiti darebbe luogo a mera revoca ai sensi dell’art. 1129 cod.civ. con facoltà del giudice di apprezzare di volta in volta la gravità della violazione) mentre per una recentissima pronuncia, alla luce del ero dato testuale dell’art. 71 bis disp.att. cod.civ. – l’assenza dei requisiti rimarrebbe addirittura senza sanzione (Trib. Genova 3.6.2016)“.

Il condominio parziale non è legittimato a stare in giudizio

IL condominio parziale non è legittimato a stare in giudizio. Lo ha stabilito la seconda Sezione della Cassazione civile che, con la sentenza n. 12641 del 17 giugno 2016, ha “affermato la carenza di legittimazione sostanziale di un «condominio «parziale» convenuto in giudizio per il crollo di un muro“.

Secondo il danneggiato (titolare di un esercizio commerciale) il muro crollato costituiva un bene comune relativo a uno solo dei tre edifici posti orizzontalmente su più numeri civici, e per questo motivo, a suo avviso, poteva chiamare in giudizio il condominio parziale dell’edificio a cui apparteneva il muro in questione.
Il nesso di condominialità è ravvisabile in svariate tipologie costruttive purché le diverse parti siano dotate di strutture portanti e di impianti essenziali comuni. Inoltre, la condominialità può ricorrere anche ove sia verificabile un insieme di edifici indipendenti, sempre ché restino in comune con gli originari partecipanti alcune delle cose indicate dell’articolo 1117 del Codice civile. Pertanto, si può ipotizzare la sussistenza, nell’ambito dell’edificio condominiale, di parti comuni, quali il tetto o l’area di sedime o i muri maestri o le scale o l’ascensore o il cortile, che risultino destinate al servizio o al godimento di una parte soltanto del fabbricato.
In queste ipotesi è automaticamente configurabile la fattispecie del «condominio parziale» (Cassazione, sentenza 23851/2010). Infatti, il condominio parziale non esige un fatto o atto costitutivo a sé, ma insorge in presenza della condizione materiale o funzionale giuridicamente rilevante“.

Il condominio parziale non è legittimato a stare in giudizio: la decisione della Suprema Corte

Quindi, secondo la Suprema Corte, “anche se il muro crollato avesse rappresentato un bene necessario all’uso comune soltanto di uno degli edifici di un unico condominio orizzontale, la domanda risarcitoria sarebbe stata inammissibile, poiché rivolta nei confronti di uno solo di tali edifici. Infatti, in tale situazione il condominio parziale non ha una propria autonoma legittimazione processuale passiva, tale da poter sostituire il condominio dell’intero edificio (Cassazione, sentenza 2363/2012). Inoltre, la sentenza ha chiarito che la circostanza relativa all’appartenenza del muro crollato, e dal quale era disceso il danno all’esercizio commerciale, a un unico condominio complesso costituito da tre fabbricati adiacenti, in quanto gruppo di edifici che, seppur indipendenti, abbia in comune alcuni dei beni di cui all’articolo 1117 del Codice civile, presuppone una valutazione di merito sottratta al giudizio di legittimità“.

L’Amministratore può essere rimborsato senza giustificativi per spese di stretta gestione condominiale

L’amministratore può essere rimborsato senza giustificativi per spese di stratta gestione condominiale. Per quanto assurda, una cosa del genere è assolutamente legittima, soprattutto se la delibera che approva il rendiconto e il preventivo decide di erogare il rimborso di una somma forfettaria per delle spese che risultano “legate a doppio filo” con la gestione condominiale, come per esempio fotocopie o spedizioni. Inoltre, l’assemblea ha anche il pieno potere di creare un fondo patrimoniale per pagare lavori non indicati nel preventivo e da svolgere in futuro.  Questo è ciò che stabilisce la sentenza 13183/16, pubblicata il 24 giugno dalla seconda sezione civile della Cassazione.

L’amministratore può essere rimborsato senza giustificativi: ecco perché

Per quanto contrario, il condomino deve rassegnarsi a quanto stabilito dai giudici della Suprema corte, secondo i quali “non è di per sé contra legem la delibera adottata dal condominio che approva il rendiconto riconoscendo all’amministratore a titolo di rimborso una somma, per quanto esigua, senza le cosiddette “pezze d’appoggio”. Anzitutto non risulta che il proprietario esclusivo, così attento alle finanze dell’ente di gestione, abbia chiesto che fossero esibiti i documenti giustificativi per poterli esaminare. Né trova ingresso la censura rivolta contro la sentenza impugnata laddove ha escluso che l’amministratore avesse l’obbligo di conservare gli scontrini: si sottrae infatti al sindacato di legittimità la delibera con cui l’assemblea ha ritenuto di liquidare a forfait in ragione della natura e della modesta entità delle spese per cui l’amministratore chiedeva il rimborso“.

Non ha neanche una miglior sorte l’altro motivo di ricorso, ovvero quello avverso alla costituzione di un fondo per la realizzazione di lavori futuri. Infatti, il tentativo di farlo rimuovere viene rigettato, oltre che in primo grado, anche in appello, poiché, anche se il condomino si era limitato a denunciarlo per la mancata inclusione dell’argomento all’ordine del giorno, il giudice aveva ritenuto chefosse sufficiente il solo aver fatto riferimento ai lavori del fabbricato. Pertanto, secondo l’assemblea, essendo lavori di manutenzione necessari, ma rinviabili all’anno successivo, ha la piena facoltà di decidere di costituire un fondo ad hoc. E tutto questo, secondo i giudici della Suprema corte, “rientra nell’ambito delle prerogative gestionali dell’assemblea, cui deve riconoscersi il potere di accantonare denaro in vista di lavori non indicati nel preventivo ma che comunque dovranno essere eseguiti in seguito. Al condomino non resta che pagare le spese di gestione“.

Appropriazione indebita dell’amministratore: scatta solo al passaggio delle consegne

L’appropriazione indebita dell’amministratore di condominio scatta solo al passaggio delle consegne. “Ai fini della prescrizione il momento in cui è integrato il delitto del professionista che opera sul conto è l’omesso trasferimento delle giacenze di cassa che determina l’interversione del possesso, va condannato per appropriazione indebita l’amministratore di condominio che, durante il suo incarico, si appropria di somme di pertinenza dell’ente ma in proposito vale la pena precisare che il possesso del denaro si manifesta e consuma soltanto al passaggio di consegne col nuovo amministratore, quindi quando le giacenze di cassa non vengono trasferite al nuovo responsabile“.

Quando scatta l’appropriazione indebita dell’Amministratore?

Nella fattispecie, “avendo l’amministratore la detenzione nomine alieno delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera attraverso operazioni in conto corrente, solo al momento della cessazione della carica si può profilare il momento consumativo dell’appropriazione indebita poiché in questo momento rispetto alle somme distratte si profila l’interversione nel possesso“.

Questo è quanto stabilito dalla sentenza 27363 del 4 luglio 2016 della seconda sezione penale della Cassazione, tramite la quale La Suprema corte ha deciso di rigettare il ricorso di un ex amministratore di condominio che, fra le altre cose, avrebbe voluto che il proprio reato venisse estinto per prescrizione, almeno per parte delle condotte. Infatti, secondo lui,  l’avvenuta appropriazione di 1.500 euro, non doveva riferirsi al passaggio delle consegne ma al momento dei singoli prelievi. Do avviso diverso era invece la Corte che a sua volta ha ritenuto “perfezionato il delitto non nel momento della sua revoca e nella nomina del successore, momento che avrebbe portato a prescrizione il reato, ma nel momento in cui egli, negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato uti dominus rispetto alla res, quindi al momento del passaggio di consegne“.