Nullo il divieto da regolamento ma chi si stacca dall’impianto paga pro quota la dispersione al 25% (sentenza 18748/16 – Tribunale Civile di Roma)

È la riforma che consente di lasciare il sistema centralizzato senza autorizzazione dell’assemblea. In base alla norma Uni 10200 consumi involontari anche a carico del condomino termoautonomo

Grazie alla riforma il regolamento non può vietare al singolo condomino di staccarsi dal riscaldamento centralizzato senza autorizzazione dell’assemblea, se non crea squilibri al sistema. Ma il singolo proprietario esclusivo che diventa termoautonomo deve continuare pagare pro quota non soltanto le spese di conservazione dell’impianto ma anche i relativi consumi involontari rilevati lungo la rete di distribuzione, in applicazione della norma Uni 10200/2013 sulla ripartizione degli esborsi: la quota è il 25 per cento stimato dal consulente tecnico d’ufficio da suddividere fra tutti i condomini sulla base delle tabelle millesimali. È quanto emerge dalla sentenza 18748/16, pubblicata dalla quinta sezione civile del tribunale di Roma (giudice Claudia Pedrelli).

Menomazione esclusa
Accolto il ricorso di due proprietari esclusivi: sono annullati il bilancio preventivo e i relativi piani di riparto a suo tempo approvati dall’assemblea perché imputano spese non dovute dai condomini che hanno lasciato l’impianto comune. È nullo il regolamento nella parte in cui prevede l’unanimità dei condomini per l’autorizzazione al distacco dal riscaldamento centralizzato: l’articolo 1118, comma 4, Cc impedisce infatti di menomare i diritti di ciascun proprietario esclusivo, entro i quali va ricompresa la facoltà di conquistare l’indipendenza termica per il proprio appartamento. La norma è stata introdotta dalla legge 220/12 e risulta successiva all’instaurazione del giudizio ma viene applicata ugualmente perché, spiega il giudice, la riforma del condominio si limita recepire la giurisprudenza di legittimità sul punto.

Quoziente e tabelle
Decisiva la ctu che conferma come il distacco non determini inconvenienti agli altri condomini: riduce solo pro quota le spese sostenute per l’energia termica. Ma bisogna tenere conto anche della dispersione stimata nella distribuzione del calore che va messa a carico anche del proprietario esclusivo che si è affrancato dall’impianto comune: paga un contributo calcolato sul 25 per cento delle spese per l’acquisto del gas metano che fa funzionare la caldaia, quoziente che poi è ripartito sulla base delle tabelle millesimali fra tutti i condomini, compresi coloro che non utilizzano più l’impianto centralizzato. Intanto i due proprietari esclusivi ottengono dall’ente di gestione il rimborso delle somme versate in eccesso. Scatta la rifusione delle spese di lite in favore del loro procuratore dichiaratosi antistatario.

Cadono pezzi dalla facciata condominiale, chi paga se qualcuno si fa male?

La responsabilità per i danni a cose e persone è del condominio, salvo eventi di forza maggiore

Partiamo dal caso ipotetico che la facciata di un condominio abbia  un cornicione pericolante che rischia di cadere sui passanti o sulle automobili parcheggiate in cortile. Nonostante il rischio sia stato segnalato in più occasioni dai condòmini, l’assemblea non ha mai risolto il problema per la mancanza  del numero legale necessario per riunirsi e  decidere.

I condomìni, a questo punto, decidono di porre all’attenzione dell’amministratore  la situazione di rischio, sollecitandolo ad  intervenire pur se manca l’autorizzazione dell’assemblea. L’invito ad agire prontamente rimane, tuttavia,  inascoltato poiché anche l’amministratore prende tempo. In queste circostanze, cosa stabilisce la legge?

Secondo l’art. 1135 comma 4  Codice civile  l’amministratore può, in casi di urgenza, ordinare lavori  di manutenzione straordinaria anche senza l’approvazione dell’assemblea.

In generale, sull’amministratore grava il dovere di attivarsi per eliminare le situazioni di pericolo a prescindere dall’autorizzazione deliberata dall’assemblea condominiale. Dopo aver iniziato i lavori, egli è obbligato a comunicarlo durante la prima assemblea utile.

Se l’amministratore, nonostante la grave situazione di rischio, non provvede ad avviare i lavori, dovrà risarcire in prima persona i danni procurati ai terzi e di cui abbia dovuto rispondere il condominio a causa della sua inerzia. Insomma, qualora la persona danneggiata domandi il risarcimento al condominio, l’assemblea potrà decidere di rifarsi sull’amministratore. Ma non solo. L’assemblea, a causa dello  scarso impegno mostrato nello svolgimento dei propri doveri, può revocargli  il mandato.

Occorre sottolineare che, alla luce di quanto detto, l’amministratore non può disconoscere la sua colpa giustificandosi con il fatto di  non aver avviato i lavori poiché mancava la preliminare autorizzazione dell’assemblea.

Per quanto riguarda il condominio, esso è responsabile per i danni cagionati a terzi, cose e persone, dalla caduta di frammenti di cemento dal cornicione o di vernice dalla facciata.  Nel caso in cui il crollo in questione è scatenato, invece, da eventi non prevedibili ed evitabili, quale ad esempio una scossa di terremoto, il condominio può esonerarsi dalla suddetta responsabilità.

Il risarcimento del danno è a carico del condominio e pagare saranno tutti i condòmini in proporzione ai rispettivi millesimi. Come già detto, può rivalersi sull’amministratore rimasto inoperoso nonostante gli inviti a effettuare gli interventi di manutenzione urgenti.

Nel caso di inattività dell’amministratore e dell’assemblea, ogni singolo condòmino può rivolgersi al tribunale affinché il giudice, vagliato il carattere di urgenza, decreti l’esecuzione delle opere di manutenzione straordinaria e indifferibile. La decisione del giudice va oltre la volontà dell’assemblea ed è un valido titolo per provvedere alla messa in sicurezza della facciata condominiale.

Comunicazione alle Entrate, dagli amministratori i dati dei soli condòmini

Rimedio in arrivo per gli amministratori, alle prese con la comunicazione all’Agenzia delle entrate dei dati dei condòmini cui spetta la detrazione per i lavori di recupero o risparmio energetico sulle parti comuni. L’Agenzia potrebbe snellire le «specifiche tecniche» eliminando le richieste più assurde. Sarebbe opportuna una revisione ed una proroga. Gli amministratori, quindi, anche se mancano pochi giorni, potrebbero sospendere momentaneamente gli invii con dati di cui non siano sicuri sino all’annunciata revisione (sempre che arrivi entro il 28 febbraio).

I problemi maggiori, dopo che il Sole 24 Ore e le Entrate hanno chiarito a Telefisco 2017 i dubbi su come indicare i morosi nella comunicazione, sono emersi da un’interpretazione piuttosto estensiva dell’Agenzia stessa sull’articolo 2 del Dm del 1° dicembre 2016, che stabilisce: «(…) gli amministratori di condominio trasmettono in via telematica all’Agenzia delle entrate, entro il 28 febbraio di ciascun anno, una comunicazione contenente i dati relativi alle spese sostenute nell’anno precedente dal condominio con riferimento agli interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica effettuati sulle parti comuni di edifici residenziali, (…). Nella comunicazione devono essere indicate le quote di spesa imputate ai singoli condòmini».

Lo stesso articolo 1 del provvedimento dell’Agenzia del 27 gennaio 2017 dispone: «(…) gli amministratori comunicano la tipologia e l’importo complessivo di ogni intervento, le quote di spesa attribuite ai singoli condòmini nell’ambito di ciascuna unità immobiliare».

I problemi, nascono dal modo in sono state predisposte le specifiche tecniche allegate al provvedimento dell’Agenzia. Nella sezione («Dati del soggetto al quale è stata attribuita la spesa»), infatti, non si è rispettata l’indicazione del decreto e, invece di farsi riferimento ai soli condòmini e alle quote di spesa agli stessi attribuite, si è introdotto – attraverso il campo «Tipologia del soggetto al quale è stata attribuita la spesa» – il riferimento ad altri soggetti (quali i locatari, i comodatari, i familiari conviventi ,eccetera), chiedendo di indicare il relativo codice fiscale.

L’agenzia avrebbe dovuto dovrebbe riflettere sull’impossibilità di ingabbiare la multiforme realtà condominiale nei suoi schemi e rassegnarsi a restare nel perimetro di quanto era stato indicato nel Dm, cioè ottenere i dati dei soli «condòmini», quindi dei soli titolari di diritti reali. Invece, nella pretesa utopica di presentare ai contribuenti una precompilata perfetta, l’amministratore è stato chiamato a raccogliere un’infinità di dati di cui non è in possesso (e che neppure sono previsti nell’anagrafe condominiale istituita dalla legge 220/2012), oltretutto in tempi ridottissimi. Sinora, invece, l’amministratore si limitava a fornire ai singoli condòmini la quota spettante e pagata, dopo di che questa poteva essere suddivisa tra i vari aventi diritto (inquilini, conviventi, comodatari) a loro stessa cura nelle loro dichiarazioni dei redditi. E il sistema ha sempre funzionato.

È chiaro, quindi, che le nuove regole delle Entrate hanno reso la comunicazione corretta impossibile, al di fuori dei casi più semplici, con il rischio della sanzione di 100 euro. Gli amministratori potrebbero quindi indicare solo i dati di chi risulta effettivamente «condòmino», eliminando così una buona parte dei possibili errori nella comunicazione. Anche se poi moltissimi «aventi diritto» dovranno controllare la loro precompilata e correggerla in base alle spese da loro effettivamente sostenute.

Considerando che mancano però solo 9 giorni alla scadenza, siamo tutti contrari ad un’operazione che non si attaglia alla realtà dei condomìni italiani e che una cosa opportuna da fare sarebbe rinviarne di un anno l’operatività o, almeno, sospendere l’applicazione delle sanzioni.

Contabilità in disordine, il compenso non spetta all’amministratore

La prova del compenso dell’amministratore deve essere fornita anche mediante l’esibizione della contabilita’ condominiale. La Corte di Cassazione puntualizza, con la sentenza numero 3892 del 14 febbraio 2017 , alcuni principi in materia di amministrazione condominiale e di retribuzione dell’amministratore di condominio.

In particolare, la vicenda in commento principia quando un amministratore condominiale al termine del proprio mandato domanda allo stabile il saldo delle proprie spettanze.

Al rifiuto del condominio, l’amministratore risponde ricorrendo alle sedi giudiziali competenti.

La domanda di pagamento degli emolumenti viene rigettata sia in primo grado che in grado di appello, ove il giudice afferma che “dalla espletata ctu era risultata la mancanza di un giornale di contabilità che avesse registrato cronologicamente le operazioni riguardanti il condominio, onde non era possibile ricostruire l’andamento delle uscite e dei pagamenti effettuati”.

L’amministratore, quindi, ricorreva in Cassazione, domandando la revisione della predetta sentenza di merito.

La Cassazione, tuttavia, si associava alle considerazioni mosse dalla Corte d’Appello e specificava come nei doveri dell’amministratore vi sia quello di tenere una corretta contabilità condominiale.

Tale contabilità deve essere tenuta mediante la redazione da parte dell’amministratore di rendiconti periodici e del giornale di cassa.

In particolare, sottolinea la Suprema Corte la contabilità condominiale deve essere tenuta in modo preciso e regolare, di modo tale da consentire ai condomini di verificare le uscite, le entrate e la ripartizione delle spese.

Nel caso in oggetto, quindi, viene specificato che la mancata tenuta della regolare contabilità non costituisce necessariamente un danno per il condominio, tuttavia questa fa parte dei doveri dell’amministratore e quindi può comportare il mancato riconoscimento degli emolumenti dell’amministratore qualora questi non possa dare prova del mancato pagamento degli stessi.

Per quanto riguarda gli onorari dell’amministratore, infatti, l’avere mancato di tenere una precisa e regolare contabilità non consente di fornire la prova della spettanza degli onorari e comporta un possibile esito negativo in giudizio.

Nel caso in commento, inoltre, l’amministratore aveva omesso di ottenere le delibere dei rendiconti da parte dei condomini ai sensi dell’articolo 1130 bis del Codice Civile i quali , qualora approvati, avrebbero rappresentato un vero e proprio riconoscimento di debito in favore dell’amministratore.

Si può quindi concludere che la prova del credito dell’amministratore può essere provata solamente tramite una corretta documentazione dell’”ammontare complessivo dei versamenti effettuati dai condomini e dalle uscite per spese condominiali, con relativi documenti giustificativi”.

Al fine di vedersi riconoscere i propri emolumenti quindi, l’amministratore deve avere cura di tenere una contabilità precisa e aggiornata e ottenere periodicamente l’approvazione dei rendiconti come previsto dagli articoli 1130 e 1130 bis del Codice Civile.

Mini proroga per la precompilata

Le correzioni alle «specifiche tecniche» della comunicazione da inviare entro il 28 febbraio (con i dati dei condòmini che beneficiano della detrazione Irpef per lavori sulle parti comuni) si faranno. Parola del vice ministro dell’Economia Luigi Casero, interpellato ieri a Milano dal Sole 24 Ore, che ha confermato quanto scritto il 19 febbraio sul giornale: «L’input per correggere le specifiche tecniche è stato dato, e non è esclusa neppure una piccola proroga».

Quindi la semplificazione chiesta da Confedilizia per l’adempimento a carico degli amministratori condominiali sta per essere recepita dall’Agenzia delle Entrate ma i giorni che mancano alla scadenza sono davvero pochi: in questo contesto, quindi, una breve proroga che non impedisca all’Agenzia di recepire i dati provenienti dagli amministratori (valutabili in parecchie decine se non alcune centinaia di migliaia) in modo da poterli inserire nella dichiarazione dei redditi «precompilata» (modello 730 o Redditi) che i contribuenti dovrebbero avere a disposizione tra un paio di mesi, il 15 aprile 2017, per poi procedere alla consegna entro il 24 luglio 2017.

È quindi ragionevole pensare che la proroga non possa essere decisa per un a data lontana, come il 30 giugno (questo il nuovo termine chiesto da Anaci in una lettera al ministro dell’Economia Carlo Padoan), ma un differimento si renderebbe davvero indispensabile per permettere agli amministratori condominiali di rivedere le comunicazioni in giacenza e quelle ancora da fare alla luce della promessa semplificazione.

Il vero problema, infatti è il modo in sono state predisposte le specifiche tecniche allegate al provvedimento dell’Agenzia, dove sono indicati i dati da inserire nella comunicazione . Confedilizia ha fatto presente che invece di fare riferimento ai soli condòmini e alle quote di spesa agli stessi attribuite, vengono nominati altri soggetti(inquilini, comodatari, familiari conviventi, eccetera). In sostanza, chi ha predisposto le «specifiche tecniche» è andato oltre quanto indicato nel Dm del 1° dicembre 2017 ma anche oltre a quanto indicato nel provvedimento del 27 gennaio della stessa Agenzia, dove si parla dei soli «condòmini», quindi dei soli titolari di diritti reali. Dl resto, sinora, l’amministratore si limitava a fornire ai singoli condòmini la quota spettante e pagata, dopo di che questa poteva essere suddivisa tra i vari aventi diritto (inquilini, conviventi, comodatari) a loro stessa cura nelle loro dichiarazioni dei redditi. E il sistema ha sempre funzionato.

Spese su balconi. Rifiuto di un condomino a far effettuare i lavori dall’impresa del Condominio,sostenendo che i farà fare i lavori a ditta di propria fiducia.

Per quanto concerne la sistemazione dei balconi a spese dei condomini, vi è una Sentenza di Cassazione n. 21343/14 del 9.10.2014 per la quale l’Assemblea, anche all’unanimità, non può imporre ad un condomino di eseguire dei lavori nella proprietà privata, il balcone in questo caso.

Ma attenzione. Qualora il condominio non possa provvedere all’esecuzione dei lavori relativi ai balconi, sostituendosi al loro proprietario esclusivo (es. pavimento del balcone) e qualora l’omessa manutenzione da parte del proprietario dovesse determinare un pregiudizio all’altrui proprietà esclusiva (ovvero anche alla proprietà comune, vedasi frontalino) non resterà che agire in giudizio facendo valere la responsabilità per danni cagionati da cose in custodia (ex art. 2051 c.c.) onde ottenere il risarcimento degli stessi da parte dei proprietari che abbiano rifiutato di eseguire, o far eseguire, la manutenzione.

Saluti, dr. Giuseppe Cinà

Se il Condominio ostacola la mediazione paga le spese

Trib. Milano Sent. 21 /07/2016

Il condominio che non collabora allo svolgimento della mediazione, pur se in una materia nella quale non è prevista come obbligatoria, deve essere condannato al risarcimento del maggior danno pari alle spese sostenute per la procedura conciliativa che, per quanto facoltativa, appariva più che opportuna in quanto avrebbe consentito ad entrambe le parti di evitare i costi e i tempi del giudizio. La Sentenza del Tribunale di Milano del 21/7/2016 costituisce un importante precedente giurisprudenziale destinato a responsabilizzare le parti che, chiamate in mediazione (ancor più se non obbligatoria ex lege o ex officio iudicis), ritengono di eludere una effettiva partecipazione alla mediazione stessa finalizzata alla concreta definizione della lite.

Nella controversia sottoposta alla decisione del tribunale lombardo, il condominio si rendeva inadempiente al pagamento di fatture relative al servizio di riscaldamento. E, dopo alcuni solleciti, veniva preventivamente invitato in mediazione dalla ditta fornitrice al fine di pervenire ad una composizione amichevole. Al primo incontro di mediazione, il condominio non partecipava: si limitava a comunicare che vi era stata una errata notifica della convocazione e che aveva provveduto al versamento di un acconto sul dovuto.

L’organismo di mediazione provvedeva a convocare un nuovo incontro tra le parti e questa volta alla seduta partecipava anche l’amministratore del condominio. Ma ciò avveniva «al solo scopo di non incorrere nelle sanzioni di legge». Tale fallito tentativo di mediazione comportava costi per la ditta fornitrice pari a 410 euro per l’indennità di mediazione versata all’organismo, oltre a 538 euro per l’assistenza legale.

A distanza di un anno, la società creditrice procedeva giudizialmente nei confronti del condominio moroso (che peraltro restava contumace nel processo). Nel ricorso chiedeva – oltre al pagamento delle residue somme dovute per le forniture – anche il maggior danno (ex articoli 1218 e 1224, comma 2, del Codice civile) pari ai costi sostenuti per la mediazione e per la connessa assistenza legale.

Il giudice milanese, dopo aver posto in evidenza che la procedura mediativa nel caso di specie era da ritenersi facoltativa, rimarcava come nella lite in questione tale scelta appariva «maxime opportuna». Infatti, l’esito conciliativo avrebbe consentito ad entrambe le parti – incluso quindi lo stesso debitore – di evitare i costi ed i tempi del processo, «poi necessariamente incardinato a seguito della mancata collaborazione del condominio nella fase della mediazione e del pervicace inadempimento dello stesso»; il procedimento di mediazione pertanto promosso dalla parte creditrice «era a beneficio dello stesso debitore, a tacere della deflazione del carico giudiziario».

La sentenza dunque giunge a ritenere sussistente il nesso di causalità tra le spese per la mediazione ed il recupero del credito, «in quanto lo strumento della mediazione era obiettivamente funzionale ad evitare – con minimi costi per il convenuto – il presente giudizio nell’interesse di entrambe le parti e del sistema Giustizia», e pertanto condanna il condominio non solo al pagamento della sorta capitale, ma anche ai danni e alle spese processuali.

Spese per lavori urgenti

La Corte di Cassazione, con la decisione numero 2807 del 2 febbraio 2017, affronta il tema della responsabilità dell’amministratore di condominio per le opere straordinarie fatte eseguire senza la previa deliberazione assembleare.

In particolare, nel caso in oggetto, l’amministratore aveva fatto eseguire alcuni lavori straordinari ad un’impresa edile senza che questi fossero deliberati o in seguito convalidati dall’assemblea.

Il condominio, quindi, si era rifiutato di corrispondere quanto dovuto alla società appaltatrice ed aveva chiesto il pagamento del costo dei lavori all’amministratore.

La società appaltatrice, quindi, otteneva decreto ingiuntivo avverso il condominio, che proponeva opposizione.

Costituendosi in giudizio l’impresa chiamava altresì in causa l’amministratore di condominio, chiedendo in via subordinata che venisse accertata la sua responsabilità personale.

Il giudizio di primo grado si chiudeva con la condanna del solo condominio al pagamento delle spese.

Nel corso del giudizio di appello, invece, la situazione veniva modificata e l’amministratore veniva dichiarato tenuto a manlevare il condominio dall’onere di pagare i succitati lavori straordinari.

Soccombente in grado di appello, l’amministratore ricorreva in Cassazione, dove vedeva accolte le sue ragioni. La Cassazione, infatti, ha stabilito la legittimazione passiva del solo condominio rispetto all’obbligazione del pagamento delle somme richieste dalla società che aveva effettuato i lavori straordinari.

In particolare, secondo la Suprema Corte, l’elemento chiave della vicenda era il requisito dell’urgenza dei lavori effettuati.

L’amministratore di condominio, infatti, è mandatario dello stesso e deve garantire il buono stato e la sicurezza delle strutture.

Qualora egli ravvisi la necessità di realizzare dei lavori di urgenza al fine di evitare dei danni alle cose o alle persone è legittimato (anzi: tenuto) ad agire tempestivamente.

In tale caso, chiaramente, egli non diventa responsabile per il pagamento delle opere straordinarie realizzate, in quanto sono volte alla tutela dello stabile amministrato.

La responsabilità in proprio dell’amministratore sussiste solo se, in mancanza di una delibera assembleare e di una situazione di urgenza, lo stesso impegna il condominio per spese non necessarie e non richieste.

La Corte di Cassazione ha quindi affermato nel testo della sentenza il seguente principio “in materia di lavori di straordinaria amministrazione disposti dall’amministratore di condominio in assenza di previa delibera assembleare non è infatti configurabile alcun diritto di rivalsa o di regresso del condominio, atteso che i rispettivi poteri dell’amministratore e dell’assemblea sono delineati con precisione dalle disposizioni del codice civile (artt. 1130 e 1135) che limitano le attribuzioni dell’amministratore all’ordinaria amministrazione e riservano all’assemblea dei condomini le decisioni in materia di amministrazione straordinaria, con la sola eccezione dei lavori di carattere urgente”.

Pagamento delle spese condominiali a carico di esercizi commerciali

I proprietari degli esercizi commerciali ritengono di essere parte estranea rispetto al condominio, dato che magari non partecipano alle assemblee, non utilizzano scale e ascensori e vi si recano solamente durante le ore di apertura.

Di conseguenza può capitare che il commerciante veda come un’ingiustizia il fatto di dovere pagare spese come la manutenzione dell’ascensore, la pulizia delle scale o il riscaldamento anche nelle parti comuni.

Tale ragionamento, tuttavia, non pare corretto.

Il negozio, pur se apparato commerciale, è a tutti gli effetti parte integrante del condominio.

L’articolo 1118 del Codice Civile prevede in punto gestione e utilizzo delle parti comuni che “il condòmino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni” e che “il condòmino non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d’uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali”.

Di conseguenza anche il proprietario del negozio dovrà contribuire, in base ai millesimi di competenza, al pagamento delle spese condominiali.

Quelli sopra tratteggiati sono i conflitti statisticamente più rilevanti tra i condomini e i negozianti dello stabile, esistono tuttavia svariate ulteriori problematiche che possono cagionare attriti.

Per dirimere tali conflitti è necessario avere regole ben precise, definite puntualmente dal regolamento condominiale ed un amministratore deve essere in grado di farle rispettare.

In ogni caso le norme del regolamento condominiale e l’opera dell’amministratore possono essere utili e necessari per dirimere i conflitti più macroscopici mentre per le questioni più secondarie e meno evidenti è consigliabile esercitare buon senso e moderazione, e far comprendere ai condomini che è sempre consigliabile evitare lunghe e costose liti giudiziarie.

Termine per l’impugnativa di una delibera assembleare da parte di condomini assenti.

Nel caso in esame, una condomina impugnava avanti al Tribunale una delibera adottata dall’assemblea del Condominio, che nel costituirsi eccepiva la tardività dell’impugnazione, chiedendone comunque il rigetto nel merito.

Il Tribunale in prima battuta sospendeva l’esecuzione della delibera, ma tale sospensione veniva successivamente revocata dal Collegio, in accoglimento del reclamo proposto dal Condominio; il Tribunale poi con sentenza dichiarava la condomina decaduta dal diritto di impugnazione della delibera per tardiva proposizione.

Alla base della suddetta decisione, il Tribunale (richiamando l’ordinanza collegiale emessa in sede di reclamo) rilevava che

– il verbale della seduta era stato spedito all’indirizzo della ricorrente il 22 luglio 2010 con lettera raccomandata, di cui l’addetto postale aveva tentato il recapito il successivo 23 luglio 2010;

– ai sensi dell’art. 1335 c.c. la dichiarazione recettizia si presume conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario e che pertanto in questo caso spettava alla ricorrente dimostrare di essersi trovata senza colpa nell’impossibilità di acquisire la conoscenza dell’atto.

La Corte d’Appello dichiarava inammissibile il gravame, rilevando che, come già affermato dal tribunale,

– l’impugnazione della delibera era stata proposta oltre il termine di trenta giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza;

– non si poteva considerare, come dies a quo per l’impugnativa della deliberazione, il momento in cui il plico era stato ritirato in ufficio.

La condomina propone quindi ricorso per cassazione, lamentando la violazione ed erronea applicazione dell’art. 1137 c.c., in correlazione con gli artt. 1334 e 1335 c.c. e art. 66 disp. att. c.c.: per la ricorrente infatti, nella specie non è applicabile il principio della presunzione di conoscenza degli atti recettizi ex art. 1335 c.c, al fine di stabilire la data di comunicazione, nonchè, con essa, la decorrenza del dies a quo per l’impugnazione delle delibere condominiali: tale data deve viceversa farsi coincidere, nel caso di specie, col 27 luglio 2010, data in cui essa ha ritirato il plico presso l’Ufficio che lo aveva ricevuto in deposito dopo il tentativo di consegna.

La Suprema Corte, nel ritenere fondato il motivo di impugnazione, osserva quanto segue:

  1. a) a norma dell’art. 1137 c.c., il termine decadenziale di trenta giorni per impugnare le delibere dell’assemblea decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti e “dalla data di comunicazione per gli assenti”;
  2. b) la prova dell’avvenuto recapito della lettera raccomandata contenente il verbale dell’assemblea condominiale all’indirizzo del condomino assente comporta l’insorgenza della presunzione “iuris tantum” di conoscenza, in capo al destinatario, posta dall’art. 1335 c.c nonchè, con essa, la decorrenza del “dies a quo” per l’impugnazione della deliberazione, ai sensi dell’art. 1137 c.c.;
  3. c) il suddetto principio, di carattere generale, è condivisibile ove lo si colleghi effettivamente “all’avvenuto recapito dell’atto all’indirizzo del condomino assente”;
  4. d) nel caso di specie, è stato compiuto solo un tentativo di recapito stante l’assenza del destinatario o delle persone abilitate alla ricezione: all’indirizzo è stato lasciato solo l’avviso di tentativo di consegna, mentre il plico contenente il verbale è stato depositato nell’ufficio postale per mancato reperimento del destinatario;
  5. e) in tale ipotesi appare davvero arduo estendere la suddetta regola perchè il presupposto è ben diverso: manca il presupposto essenziale per l’applicabilità della presunzione di conoscenza posta dal’art. 1335 c.c, cioè l’arrivo dell’atto all’indirizzo del destinatario;
  6. f) per gli Ermellini – in caso di spedizione a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno e di mancato reperimento del destinatario da parte dell’agente postale – si deve fare applicazione analogica della regola dettata nella L. n. 890 del 2002, art. 8, comma 4, secondo cui:

“la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”; peraltro, poichè il citato regolamento del servizio di recapito adottato non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza, ma soltanto, all’art. 25, il “rilascio dell’avviso di giacenza”, la regola da applicare per individuare la data di perfezionamento della comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, in caso di mancato recapito della raccomandata all’indirizzo del destinatario, è quella che la comunicazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore.”

Esito del ricorso: accoglimento con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello.

Sent. Cassazione civile n. 25791 del 14-12-2016