Delibera condominiale annullabile per abuso del diritto

Una delibera condominiale può essere annullata quando è stata assunta violando norme di legge o di un regolamento, questo quello che stabilisce l’art. 1137, dal marzo del 205, anche secondo quanto deliberato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sent. n. 4806. Altre delibere possono, tra l’altro, anche essere considerate nulle secondo quanto previsto dall’ art. 1117 – ter. del codice civile.

Entrando nel merito dell’ impugnazione di delibere condominiali, infatti, è opportuno precisare, che è  precluso all’Autorità Giudiziaria di sindacare sulle scelte operate dall’assemblea nelle delibere oggetto d’impugnazione, poiché il suo potere di intervento è limitato alla sola violazione della legge o del regolamento condominiale in quanto non è previsto dalle norme alcun riesame riguardante l’oggetto delle delibere, sulle opportunità delle decisioni e sulle ragioni che le hanno determinate. Ne consegue che Il giudice adito per risolvere una controversia relativa all’impugnazione di una delibera non può andare oltre ai vizi di annullabilità che riguardano gli aspetti formali delle procedure relative a convocazione, verbalizzazione e deliberazione e la nullità che riguarda quelle delibere che agiscono sui diritti dei singoli sulle parti comuni, o sulle parti di proprietà esclusiva. Questi principi sostenuti fermamente in sede giudiziaria, aprono di fatto la questione sull’eccesso di potere ed all’abuso del diritto.

Proviamo quindi a specificare cosa intendiamo per abuso del diritto

Quando parliamo di abuso comunemente intendiamo ogni forma anormale di esercizio di un diritto che, senza realizzare alcun interesse per il suo titolare, provoca un danno o un pericolo di danno per altri soggetti.  Ci si potrebbe a questo punto domandare se si possa parlare di abuso del diritto  anche in ambito condominiale e sicuramente potremmo affermare di si, almeno secondo quanto asserito sull’argomento, con una sentenza dalla Corte d’appello di Firenze in materia di abuso del diritto da parte di un condòmino, infatti, in quell’occasione i giudici fiorentini affermarono che rappresenta un abuso del diritto l’impugnazione di una delibera da parte di un condòmino non convocato correttamente, anche se presente in assemblea. (App. Firenze 19 settembre 2012 n. 1186).

Abuso del diritto e invalidazione della delibera

Secondo quanto detto sino ad ora, potrebbe sorgere spontanea una domanda, ovvero,  ma se fosse l’assemblea, cioè la maggioranza deliberante ad abusare del proprio diritto, cosa accadrebbe?

Si questo tema si è espressa la giurisprudenza (Trib. Roma 17 aprile 2019 n. 8479) che si è pronunciata sull’argomento affermando che un abuso del diritto condominiale può verificarsi quando la causa della deliberazione sia deviata dalla funzione tipica.

In questi casi,  i giudici,  in derogando al generale divieto di sindacato dell’Autorità Giudiziaria sul merito delle delibere, possono valutare le decisioni dell’assemblea,  per capire se l’esercizio del diritto è stato conforme alla legge, o se vi è stato un abuso.

In questi casi, chi ritiene una decisione un abuso del diritto può contestarlo in giudizio, ma, chiaramente, portando davanti al giudice  elementi utili a dimostrare le proprie tesi.

Il condomino irregolarmente convocato via mail può sempre impugnare la delibera?

A tale proposito merita di essere ricordato che prima della riforma non era previsto alcun obbligo di forma, la comunicazione poteva avvenire anche in forma orale, proprio in base la principio di libertà delle forme, salvo che il regolamento non prescrivesse particolari forme di notifica dell’avviso.

Inoltre, l’eventuale previsione regolamentare in ordine alle modalità di convocazione dell’assemblea, poteva essere modificata anche per facta concludentia, quindi per prassi costante seguita dagli amministratori di condominio. Dopo la riforma del condominio, l’avviso di convocazione contenente specifica indicazione dell’ordine del giorno, deve essere comunicato almeno 5 giorni prima della data fissata per l’adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, indicando ora e luogo della riunione (art. 66 disp. att. c.c., comma 3). Tale modalità non cambia neppure se i condomini ricorrono all’assemblea in streaming: in tal caso però l’avviso deve contenere lo specifico strumento telematico che dovrà essere utilizzato, ossia la piattaforma elettronica sulla quale si terrà la riunione – riportando anche il link per accedervi – nonchè l’ora e la data della stessa.

La convocazione via mail

Una recente decisione ha affermato che l’articolo 66, comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice civile non prevede l’e-mail semplice come mezzo di convocazione dei condomini, ma che ciò non implica che l’uso della stessa sia vietato, sempreché la ricezione della comunicazione sia garantita e, soprattutto – in caso di contestazione – possa essere provata (Trib. Tivoli, 5 aprile 2022, n. 493). Il problema nasce se in giudizio il condomino convocato afferma di non aver ricevuto alcuna rituale convocazione dell’assemblea, nelle forme di legge e il condominio, gravato del relativo onere, non riesce a fornire alcuna valida prova del contrario.

Si ricorda che l’elenco delle modalità di trasmissione indicate nell’art. 66 disp. att. c.c. è da considerarsi tassativo poiché l’avviso di lettura dell’e-mail, a differenza della PEC, non ha alcun valore legale (Trib. Genova 23 ottobre 2014 n. 3350).

Lungo questa linea di pensiero è stata dichiarata irregolare la convocazione dell’assemblea trasmessa ad un indirizzo di e-mail ordinaria e non all’indirizzo PEC espressamente indicato dal condomino all’amministratore per l’invio delle comunicazioni (Trib. Sulmona 3 dicembre 2020, n. 243). Altra decisione ha affermato che è annullabile la delibera dell’assemblea se i condomini sono stati convocati con una mail ordinaria: lo strumento, infatti, non conferisce certezza della comunicazione perché a differenza della PEC non dimostra l’effettivo recapito del messaggio al destinatario (Trib. Roma, 23 luglio 2021).Secondo una decisione di merito però qualora sia stato lo stesso condomino a chiedere di essere informato circa la convocazione dell’assemblea condominiale a mezzo di mail ordinaria, poi non può appellarsi al fatto che l’avviso non gli sia stato inviato via PEC (App. Brescia 3 gennaio 2019 n. 4).

Convocazione invalida via mail

A parte casi particolari, la convocazione via mail dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporta l’annullabilità della delibera condominiale. Si tratta di vizio formale inerente il procedimento di formazione della volontà dell’ente di gestione, costituente valido motivo di impugnazione, a prescindere da ogni ulteriore interesse del condomino che contesta la delibera. La conseguenza della qualificazione del vizio in termini di “annullabilità” comporta che, nel caso di decorrenza del termine di 30 giorni previsto dall’art. 1137 c.c. senza che sia proposta impugnazione, la delibera (in origine irregolare) non possa più essere contestata giudizialmente.

Il condomino irregolarmente convocato via mail può sempre impugnare la delibera?

L’irregolarità costituita dalla convocazione dell’assemblea a mezzo di semplice e-mail può essere eccepita, ai sensi dell’art. 66 disp. att. c.c., esclusivamente dai dissenzienti e/o dagli assenti non regolarmente convocati.

Attenzione però che l’annullabilità della delibera assembleare per mancata comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea non può essere fatta valere allorché il condomino, nei cui confronti la comunicazione è stata omessa, sia presente in assemblea, dovendosi presumere che lo stesso ne abbia avuto comunque notizia, rimanendo l’eventuale irregolarità della sua convocazione conseguentemente sanata. Allo stesso modo l’illegittima convocazione per mezzo di semplice e-mail viene sanata dalla pacifica presenza in assemblea e dalla partecipazione al voto del condomino che non contesta la detta irregolarità (Trib. Roma 12 maggio 2023 n. 7545).

Rumori in condominio: quando si è assolti

Rumori durante le ristrutturazioni: quando sono reato e quando si può essere condannati penalmente.

Nel contesto condominiale, il tema dei rumori genera immancabilmente incertezze. Si può denunciare chi fa chiasso, ad esempio perché sta facendo lavori di ristrutturazione o perché la notte lascia la televisione ad alto volume? E la vicina che fa esercizi col pianoforte o quello che invece sposta i mobili proprio quando gli altri dormono?

Una recente pronuncia della Cassazione (sent. n. 7717/24) chiarisce quando, per i rumori in condomino, si è assolti dal reato di “disturbo alla quiete pubblica”. La pronuncia non fa altro che individuare la sottile linea di confine tra illecito civile e penale, Ma procediamo con ordine.

Quando i rumori molesti non comportano responsabilità penale?

Per aversi reato di disturbo alla quiete pubblica, l’articolo 659 del codice penale richiede che il rumore possa arrecare molestia a un numero indeterminato di persone e non solo a uno o a pochi vicini. Secondo la sentenza in questione, un condomino può essere assolto dalla responsabilità per i rumori generati da lavori di ristrutturazione se tali rumori disturbano esclusivamente i vicini più prossimi, senza impattare significativamente sull’intera comunità condominiale. La Corte di Cassazione ha chiarito che, affinché vi sia punibilità, è necessario che i rumori arrechino disturbo non solo agli occupanti degli appartamenti adiacenti alla fonte di emissione, ma anche a una parte considerevole dei condomini. Il fatto però che il rumore non integri il reato non significa che non possa essere punibile. Esso, se superiore alla «normale tollerabilità» costituirà un illecito civile che potrà dar vita a un giudizio per il risarcimento e per l’ottenimento di una “interdittiva” (ossia l’ordine di cessazione del rumore o di insonorizzazione dei locali).

Cosa si considera normale tollerabilità?

Come anticipato il rumore diventa reato quando arriva a un numero indeterminato di persone. Ma basta che sia semplicemente intollerabile per essere già vietato dal codice civile (art. 844 cod. civ.). Ma quando possiamo considerare che un rumore supera la “normale tollerabilità”?

La legge si riferisce unicamente a un criterio: quello geografico. In altri termini, in un contesto residenziale caratterizzato da un minore rumore di fondo, è più facile che il rumore diventi intollerabile e quindi illecito. Al contrario, in una via molto trafficata, caratterizzata dal chiasso proveniente dall’esterno del fabbricato, il rumore del vicino sarà più difficilmente distinguibile. La legge italiana non fornisce una definizione precisa di “rumore molesto”. Tuttavia, la Cassazione ha stabilito che il rumore è considerato molesto se supera la normale tollerabilità, avuto riguardo:

alla natura del rumore: rumori occasionali e di breve durata sono generalmente tollerati, mentre quelli continui e persistenti non lo sono;

all’orario in cui il rumore si verifica: la legge prevede fasce orarie di silenzio durante le quali i rumori devono essere contenuti;

alla zona in cui si trova il condominio: in zone rurali la tollerabilità è maggiore rispetto a zone urbane;

alla intensità.

Poiché i criteri appena indicati risultano molto generici, i giudici hanno provato a darsi un criterio empirico per valutare la tollerabilità dei rumori in decibel (dB). Le sentenze così prevedono dei limiti di emissione sonora differenziati per le diverse fasce orarie:

se si superano di oltre 5 decibel i rumori di fondo dalle 06:00 del mattino alle 22:00 o di oltre 3 decibel nelle ore notturne, il rumore si considera illegale;

se invece si rimane al di sotto di tali soglie di decibel, si rispettano i limiti di tollerabilità e quindi il rumore deve considerarsi consentito. Inviare una lettera di diffida al condomino responsabile dei rumori.

È rilevante il rispetto delle fasce orarie?

Un aspetto interessante emerso dalla sentenza è che il rispetto delle fasce orarie eventualmente (ma non obbligatoriamente) stabilite dal regolamento condominiale non è determinante ai fini della responsabilità penale ma solo civile. Ciò significa che, anche se i lavori vengono effettuati in orari teoricamente non consentiti, ciò non implica automaticamente la commissione del reato per il disturbo causato, a meno che non venga disturbata una consistente parte dei condomini.

Quando scatta il reato di disturbo della quiete pubblica?

Relativamente ad attività svolte in condominio, per far scattare il reato previsto dall’articolo 659 cod. pen. è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio; l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia.

Per l’articolo 659 cod. pen., non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo ad un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio.

L’amministratore è responsabile se non procede al recupero forzoso dei crediti condominiali

Il decreto ingiuntivo nei confronti dei morosi è uno strumento imprescindibile di riferimento per evitare danni ai condomini in regola con i pagamenti.

Lo stato di morosità nel pagamento degli oneri condominiali è all’ordine del giorno. I condomini inadempienti non possono e non devono dormire sonni tranquilli, perché l’amministratore, che sia diligente nell’espletamento del proprio mandato, è obbligato al
recupero, senza indugio, delle somme dovute.

Questo è un punto di forza, insito nelle attribuzioni affidate al rappresentante condominiale, che è sempre stato sancito dalla normativa di settore. Ieri come oggi. I giudici di legittimità hanno ribadito questo principio, evidenziando come l’inerzia dell’amministratore potrebbe determinare un grave danno alla compagine condominiale.

Condannato l’amministratore che non abbia promosso azione ingiuntiva per riscuotere i contributi non versati.

Fatto e decisione
La Corte di cassazione, con ordinanza n.  36277 del 28 dicembre 2023 , ha dichiarato infondato il ricorso promosso dall’ex amministratore di un condominio avverso la sentenza di secondo grado, che lo aveva condannato a versare al convenuto una somma a
titolo di risarcimento dei danni conseguenti al mancato esperimento di azione ingiuntiva di pagamento nei confronti di un condomino moroso.

La controversia prendeva le mosse da un’azione intentata dall’attuale ricorrente nei confronti del condominio già amministrato ed avente ad oggetto il pagamento di compensi e rimborsi spese. Il convenuto condominio aveva proposto, a sua volta, domanda riconvenzionale, finalizzata ad ottenere il  risarcimento dei danni  per il motivo di cui sopra.

Il Tribunale accoglieva la domanda principale in minima parte, mentre rigettava quella riconvenzionale.

La revoca dell’amministratore di condominio

La decisione, ribaltata in sede di gravame con l’accoglimento dell’appello incidentale del condominio, riconosceva l'evidente  inadempimento dell’amministratore , inerte quanto ai propri doveri volti al recupero delle spese condominiali non versate dal condomino moroso, tanto più che la debitrice era stata cancellata definitivamente dal Registro delle Imprese rendendo impossibile il recupero del credito.

Il ricorso proposto dall’ex amministratore, per quanto concerne il merito della questione e per quanto di specifico interesse, si fondava, in particolare, sull’errata pronuncia della Corte di appello in ordine alla negligenza del soggetto, dal momento che la mancata iniziativa di riscossione coattiva dei crediti si fondava su di una normativa, la legge n. 220/2012, successiva ai fatti di causa.

La Corte di cassazione ha ritenuto infondato il motivo di impugnativa dal momento che l’obbligo dell’amministratore precede l’entrata in vigore della riforma del condominio e, nella fattispecie, il comportamento negligente del rappresentante condominiale aveva impedito in via definitiva il recupero del credito vantato dal condominio.

Considerazioni conclusive
Il provvedimento emesso dalla Corte Suprema è indenne da qualsivoglia incertezza e tentativo di critica, in quanto rispetta perfettamente sia il dettato legislativo, sia la ratio ad esso sottesa.

Innanzi tutto, va evidenziato che una delle  attribuzioni affidate all’amministratore  è quella di riscuotere i contributi  ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’esercizio e per l’esercizio dei servizi comuni.

In particolare, l’attività di riscossione, che chiaramente corrisponde ad incamerare le somme dovute dai condomini in ragione delle rispettive quote millesimali, si riferisce sia ai contributi ordinari che straordinari, mentre l’erogazione delle spese non comprende gli oneri di natura straordinaria sui quali l’amministratore non ha alcun potere.

Tanto è vero che l’art. 1135, co. 1, n. 4, c.c. pone il divieto per l’amministratore di ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo il carattere urgente, con l’ulteriore obbligo di riferirne nella prima assemblea.

La norma deve essere correlata all’art. 63 disp. att. c.c., che disciplina le modalità correlate alla riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea. Tale attività è totalmente affidata alla piena disponibilità dell’amministratore, il quale può
agire in giudizio senza bisogno di autorizzazione dell’assemblea ottenendo un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo.

Il motivo è presto detto: uno stato di morosità in ambito condominiale non è ammissibile, poiché la sofferenza della cassa comune impedisce la gestione finanziaria dell’ente amministrato.

Non si può, quindi, dubitare che la discrezionalità riconosciuta all’amministratore è che può, senza autorizzazione dell’assemblea, ottenere un decreto di ingiunzione.

Tutto ciò trova conferma nell’ art. 1129, co. 9, c.c., il quale stabilisce che l’ amministratore è tenuto ad agire per la  riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio nel quale il credito è esigibile, salvo una espressa dispensa da parte dell’ assemblea.

Da ultimo, deve essere preso in considerazione l’art. 1131 c.c. che disciplina la rappresentanza in ambito condominiale e che detta i limiti della legittimazione attiva in capo all’ amministratore alle attribuzioni stabilite dall’art. 1130 c.c. o ai maggiori poteri a lui
conferiti dall’assemblea.

Il combinato disposto di tali norme costituisce il fondamento per l'azione ingiuntiva che l’amministratore deve promuovere per evitare che il condominio patisca danni in conseguenza della morosità dei condomini. Questo non è avvenuto nel caso portato all’esame dalla Corte di cassazione, in quanto per tabulas è emersa sia l’inerzia dell’amministratore in violazione degli obblighi posti dalla
legge a suo carico, sia del danno che il suo comportamento aveva procurato al condominio in seguito alla cancellazione del debitore dal Registro delle Imprese.

Al di là di questi fatti incontestabili va evidenziato che la precedente versione di alcune delle disposizioni richiamate e che, in alcuni casi, non sanciva espressamente l’obbligatorietà dell’azione monitoria da parte dell’amministratore, che è sempre stata uno dei pilastri che ha definito il rapporto condominio/condomino in relazione al pagamento degli oneri condominiali.

In effetti, se è vero che il testo originale  dell’art. 63 disp. att. c.c.  si era semplicemente limitato a stabilire che l’amministratore, per riscuotere i contributi condominiali, poteva ottenere decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, facendo cadere nell’errore di ritenere che la scelta di agire in giudizio fosse lasciata alla mera discrezionalità dell’amministratore stesso, è altrettanto vero che la giurisprudenza, in passato, aveva già superato tale ostacolo.

In effetti era stato affermato che l’amministratore poteva agire per la  riscossione forzosa dei crediti condominiali  anche senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, trattandosi di atto finalizzato a realizzare un interesse comune (Cass. 05 gennaio 2000, n.
29; Cass. 29 dicembre 1999, n. 14665) e, più genericamente, che il rappresentante condominiale era pienamente legittimato a chiedere l’emissione del decreto ingiuntivo previsto dall’art. 63 disp. att. c.c. per il recupero degli oneri condominiali una volta che l’assemblea condominiale avesse deliberato sulla loro ripartizione (Cass. 9 dicembre 2005,n. 27292; 15 maggio 1998, n. 4900).

A ben vedere, quindi, nulla di nuovo in questo senso è avvenuto con la riforma del condominio, poiché il legislatore ha solamente provveduto a rendere più chiaro, avvalendosi anche dell’aiuto della giurisprudenza, il contenuto di alcune norme sul punto.

In questo senso si ritiene che la Corte di cassazione abbia correttamente posto in rilievo l’irrilevanza della nuova normativa in relazione ad un problema che, in realtà, non vi è mai stato.

Necessaria l’unanimità di tutti i condomini per la rimozione di una siepe su area condominiale

E’ nulla la delibera condominiale che approva a maggioranza la rimozione di una siepe situata in area condominiale. In tal senso ha deciso il Tribunale di Tivoli con la sentenza n. 1513 del 2 novembre 2022.

Il caso: Mevia, nel chiedere la nullità e/o annullamento di una delibera condominiale, deduceva che:

– di essere proprietaria di una villa facente parte del condominio convenuto;

– l’assemblea condominiale convocata in data 17.1.2019 aveva deliberato positivamente per la rimozione, per ragioni di sicurezza, di una siepe situata nella zona inferiore del condominio, di fronte ad alcune ville, tra le quali la sua;

– di essersi già in precedenza opposta a tale ipotizzato lavoro evidenziando il grave pericolo che sarebbe derivato dalla suddetta rimozione (abbassamento livello terreno, importante fuoriuscita di acqua, difficoltà di drenaggio della stessa, cedimento terreno, ecc);

–  riguardando l’eliminazione di un bene comune, avrebbe dovuto essere assunta all’unanimità.

Si costituiva il Condominio, il quale, nel chiedere il rigetto della domanda, eccepiva, tra l’altro, che:

– l’abbattimento della siepe non poteva essere considerata come innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c.

– in ogni caso, la delibera era stata adottata con la maggioranza qualificata di cui al quinto comma dell’art. 1136 c.c. che consente di disporre ogni innovazione diretta al miglioramento o all’uso più comodo dei beni comuni.

Per il tribunale la domanda deve essere accolta sulla base della seguente motivazione:

La Corte d’Appello di Roma con sentenza numero 478/2008 ha avuto modo di affermare che è l’abbattimento di alberi, comportando la distruzione di un bene comune, deve considerarsi un’innovazione vietata e in quanto tale richiede l’unanime consenso di tutti i partecipanti al condominio, né può ritenersi che la delibera di approvazione a maggioranza della spesa relativa all’abbattimento possa costituire valida ratifica dell’opera fatta seguire di propria iniziativa dall’amministratore.

Fiscalizzazione dell’abuso: il rapporto tra stato legittimo e detrazioni fiscali

Gli effetti della fiscalizzazione di un abuso edilizio sulla fruizione di detrazioni fiscali e sull’agibilità dell’immobile

Mettere in relazione il concetto di fiscalizzazione dell’abuso e bonus edilizi non è né facile né banale, ma è possibile tracciare una rotta che passi tra giurisprudenza e normativa.

Fiscalizzazione dell’abuso: cos’è?

Anzitutto, è forse utile richiamare il concetto di fiscalizzazione dell’abuso edilizio, per poterlo inquadrare in modo deciso nelle definizioni normative. Per fiscalizzazione, dunque, si intende la procedura prevista sia dall’art. 33, comma 2, sia dall’art. 34, comma 2, del DPR 6 giugno 2001 n. 380: è, in entrambi i casi, una procedura che mira a tutelare l’integrità strutturale di edifici che, pur nascendo legittimi o avendo un nucleo legittimo, sono stati successivamente trasformati, ovvero proprio costruiti, con delle difformità importanti che affliggono, però, solo una parte dell’immobile. Fermo restando che per gli illeciti gravi (dalla ristrutturazione edilizia pesante in su) la norma prevedrebbe sempre e comunque la demolizione, la c.d. fiscalizzazione può operare, a discrezione dell’amministrazione, in quei casi in cui il ripristino o la demolizione della porzione illegittima non può essere eseguita senza arrecare pregiudizio alla parte legittima.

Fiscalizzazione dell’abuso: non è una sanatoria

In sostanza, si tratta di una procedura che consente di evitare la demolizione, convertendola in una sanzione pecuniaria. Fin qui sembra tutto chiaro, se non fosse che questa procedura è stata interpretata nel corso del tempo in modo forse un po’ troppo smaliziato ed è stata addirittura spacciata per una procedura di accertamento di conformità, cosa che, a mio parere, non è. Questo è un primo punto essenziale da chiarire per poter comparare la procedura di fiscalizzazione con il tema dell’applicabilità dei benefici fiscali: la cosiddetta fiscalizzazione tutto è tranne che una procedura di sanatoria o accertamento di conformità. Questo concetto è stato chiarito dalla Corte di Cassazione Penale che, con sentenza n. 3579/2021, è andata a confermare l’ovvio: negli articoli 33 e 34 non si parla di accertamento di conformità, il quale è relegato agli articoli 36 e 37: nelle procedure di cosiddetta fiscalizzazione, dunque, si tramuta la demolizione in sanzione e basta, senza produrre nessun effetto sanante. Significa che anche dopo aver pagato, l’immobile rimane privo dello stato legittimo, solo che la difformità non può essere rimossa. È, nei fatti, uno stato di limbo, in cui l’immobile non è né sanato né demolibile: forse può essere commerciabile, ma questa è un’altra storia.

Interventi eseguiti in base a permesso annullato

Per parallelismo, e per comprendere meglio l’approccio da avere nei confronti di questa procedura, possiamo parlare dell’articolo 38 sempre del testo unico dell’edilizia, che disciplina gli interventi eseguiti in base a permesso annullato: l’articolo tratta il delicato caso degli edifici che, pur realizzati in conformità ad un titolo edilizio regolarmente rilasciato, hanno perduto lo stato legittimo a causa del successivo annullamento del permesso, cosa che può avvenire se vengono riscontrati dei vizi a posteriori: per tutelare in parte il legittimo affidamento del privato, e sempre nel caso in cui si accerti la non demolibilità del fabbricato (e non sia possibile togliere il vizio da un punto di vista amministrativo), il quale ha costruito serenamente pensando di essere “a posto”, la legge ha disciplinato, in questo articolo, la possibilità di espiare i vizi del permesso pagando una (salata) oblazione e, in questo specifico caso, la legge espressamente prevede che il pagamento dell’oblazione produce gli effetti dell’articolo 36 (art. 38, comma 2), ovvero l’accertamento della conformità edilizia. Dunque nel caso dell’art. 38, pagando, si ripristina lo stato legittimo (temporaneamente) perduto. Di tutto ciò, invece, non vi è traccia negli articoli 33 e 34, dal che si può facilmente desumere che la volontà del legislatore è che la procedura di fiscalizzazione, benché non particolarmente costosa (la sanzione si calcola sulla base dei valori dell’equo canone), non produce uno stato legittimo degli immobili afflitti da difformità gravi, altrimenti avrebbe inserito in questi articoli un qualcosa di analogo a ciò che ha disposto nell’art. 38.

Il rapporto tra abuso fiscalizzato e detrazioni fiscali

Ancora due parole prima di affrontare il tema di fondo del rapporto tra abuso fiscalizzato e detrazioni fiscali: la procedura di cosiddetta fiscalizzazione non è attivata a scelta del proprietario, né può essere suggerita dal tecnico privato come procedura da depositare al comune come se fosse una sanatoria. La legge è abbastanza chiara nell’indicare che l’attivazione della fiscalizzazione è appannaggio della Pubblica Amministrazione, la quale opta per tale procedura nel caso in cui effettivamente sussistano i presupposti di legge per convertire la sanzione demolitoria in sanzione pecuniaria, al solo fine di tutelare ciò che è urbanisticamente legittimo.

La scelta della P.A. può eventualmente essere guidata attraverso l’interlocuzione con il privato (cosa che deve sempre avvenire, anche nelle procedure di disciplina edilizia), ma rimane il fatto che la scelta è operata esclusivamente dall’amministrazione. Dunque se un privato avesse interesse a fiscalizzare il suo abuso, dovrebbe di fatto autodenunciarsi ed attendere l’attivazione delle procedure repressive, ed attendere l’attivazione del colloquio con la PA per cercare di giustificare la non demolibilità.

Rivolgendo la prospettiva dal lato del funzionario pubblico, va sottolineata l’attenzione che bisogna porre nella valutazione dell’applicazione di questa opzione: la stessa deve essere verificata ed approfondita e non deve esserci il dubbio che effettivamente l’abuso avrebbe potuto essere rimosso senza pregiudizio della parte legittima. Su questo tema si è espresso il Consiglio di Stato con sentenza n. 1492 del 2 marzo 2020, anche se l’argomento era l’art. 38, dunque opere eseguite in base a permesso annullato, ma il tema era analogo: i giudici in questo caso annullano il provvedimento con cui l’amministrazione accoglieva la conversione della sanzione demolitoria in oblazione perché l’abuso si è scoperto essere in effetti facilmente demolibile senza arrecare pregiudizio alle porzioni legittime: suggerisco pertanto attenzione nel bilanciare correttamente gli interessi in gioco, e di prendere decisioni solo dopo analisi serene ed approfondite.

Immobile fiscalizzato: possiede lo stato legittimo?

Per riprendere il discorso di base, se un immobile è stato oggetto di fiscalizzazione, nei fatti non ha uno stato urbanistico legittimo, dunque si trova in uno stato di illegittimità, ma, contestualmente, il comune non può più disporre atti di disciplina perché la sua azione repressiva si è conclusa nel momento in cui è stata pagata la sanzione pecuniaria sostitutiva di quella demolitoria.

Cosa fare allora? Una ipotesi può essere quella di predisporre opere di ripristino, mediante presentazione di idoneo titolo, che possano eviziare l’immobile dai suoi abusi, riportandolo in uno stato edilizio conforme. Il fatto che la porzione abusiva non possa essere demolita senza pregiudizio di quella legittima, sta a significare che per riportare in conformità una situazione del genere bisognerà intervenire anche sulla porzione legittima per raggiungere uno stato conforme (altrimenti si dimostrerebbe che l’abuso era effettivamente demolibile senza pregiudizio, il che sarebbe un controsenso a posteriori nel procedimento).

Immobile fiscalizzato: niente bonus edilizi

Da quanto detto appare quindi quasi automatica la risposta alla domanda di base: un immobile con abuso fiscalizzato può beneficiare di vantaggi fiscali concessi dalla legge? L’art. 49 del DPR 380/01 è abbastanza chiaro nel merito e la risposta appare essere, abbastanza chiaramente, negativa. Ovviamente fatta salva l’applicazione del superbonus, per il quale si può procedere con la controversa CILAS nella quale si può espressamente evitare di fare riferimento alla legittimità edilizia; nel qual caso, però, invito a riflettere sull’agibilità: a parte i (limitati) casi in cui il superbonus stesso consente di non chiederla a fine lavori, come si potrà ottenere una agibilità su un fabbricato che non ha conformità edilizia, stante il chiaro enunciato dell’art. 24 DPR 380/01?

Pubblicato il Decreto sull’iscrizione all’Albo CTU per gli Amministratori di condominio

L’approvazione del Decreto  consente di promuovere l’accessibilità e la qualità della consulenza tecnica nel contesto legale e, soprattutto, nell’ambito della gestione professionale degli immobili.

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 187 del 11 agosto 2023 è stato pubblicato il Decreto del Ministero della Giustizia n. 109 del 4 agosto 2023, che disciplina l’iscrizione all’Albo dei Consulenti Tecnici d’Ufficio (CTU) anche per i professionisti che – come gli amministratori di condominio – esercitano attività non organizzate in Albi, Ordini o Collegi.

Questo decreto rende accessibile l’iscrizione all’Albo dei CTU per tutti i professionisti interessati a svolgere attività di consulenza in ambito giuridico, offrendo nuove opportunità per un più ampio coinvolgimento di esperti qualificati nel campo.

Inoltre, il Decreto riconosce il ruolo cruciale svolto dalle Associazioni professionali, di cui alla legge n. 4 del 2013. Queste Associazioni, elencate presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), possono rilasciare attestati di qualità e qualificazione professionale per i servizi prestati dai propri membri, confermando così la loro importanza nel panorama professionale.

Tra gli aspetti salienti di questo Decreto, rientrano:

  • L’identificazione delle categorie professionali e dei relativi settori di specializzazione (vedi allegato A del provvedimento)
  • Le specifiche relative all’iscrizione e alla domanda di iscrizione all’Albo
  • Le condizioni per la sospensione e la cancellazione volontaria dall’Albo
  • I requisiti necessari per l’iscrizione e le condizioni per il suo mantenimento nel tempo
  • Le specifiche tecniche per la formazione, la gestione e l’aggiornamento informatico degli albi e dell’elenco

Per i professionisti che esercitano una professione non organizzata in Albi, Ordini o Collegi, il Decreto stabilisce che essi debbano essere iscritti nel ruolo dei periti e degli esperti presso la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, oppure presso una delle associazioni professionali incluse nell’elenco detenuto presso il Ministero IMIT.

Inoltre, è richiesto il rispetto degli obblighi di formazione continua, in linea con le disposizioni delle rispettive associazioni professionali di appartenenza.

Questo Decreto è entrato in vigore lo scorso 26 agosto, e le domande di iscrizione all’Albo possono essere presentate nei periodi stabiliti tra il 1 marzo e il 30 aprile e tra il 1 settembre e il 31 ottobre di ciascun anno.

L’approvazione di questo Decreto rappresenta un significativo passo in avanti nella regolamentazione dell’iscrizione all’Albo CTU, che consente di promuovere l’accessibilità e la qualità della consulenza tecnica nel contesto legale e, soprattutto, nell’ambito della gestione professionale degli immobili.

Mediazione in condominio: le novità della riforma Cartabia

Con la recente riforma del processo civile (D.lgs 149/2022), il legislatore ha disposto l’abrogazione dei commi 2, 4, 5 e 6 del vigente articolo 71-quater disp. att. c.c. mantenendo in vigore il solo comma 1 che definisce l’ambito di applicabilità della condizione di procedibilità in materia condominiale e novellando il comma 3 con il rinvio all’articolo 5-ter Dlgs. n. 28/2010 (punto 2 dell’art. 2 del D.lgs 149/2022).

Questa norma (art. 5-ter Legittimazione in mediazione dell’amministratore di condominio) stabilisce quanto segue:

“l’amministratore del condominio è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti    all’approvazione dell’assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell’accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile. In caso di mancata approvazione entro tale termine la conciliazione si intende non conclusa”.

Il terzo comma è stato invece modificato nel seguente modo: al procedimento è legittimato a partecipare l’amministratore secondo quanto previsto dall’articolo 5-ter Dlgs. n. 28/2010.

Non vi è dubbio che la soluzione più logica e semplificante sarebbe stata quella di modificare solo l’articolo 71-quater disp. att. c.c., evitando il richiamo ad una norma esterna (l’articolo 5-ter Dlgs. n. 28/2010) e la conseguente necessità di considerare due disposizioni collocate in testi normativi differenti.

L’articolo 5-ter Dlgs. n. 28/2010 è destinato a creare diversi inconvenienti.

L’amministratore del condominio è legittimato senza delibera ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi: si tratta di una norma volta a snellire la procedura ma di difficile applicazione pratica atteso che il professionista incaricato dai condomini di gestire il caseggiato eviterà di assumere iniziative non concordate e magari ritenute inutili dalla collettività condominiali (assumerà solo le decisioni urgenti nell’interesse della sicurezza dei condomini e di terzi).

Estremamente generica appare poi la maggioranza con cui i condomini devono approvare l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore: il testo ambiguamente parla di “maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile”. Il vecchio testo precisava che per l’approvazione della proposta di mediazione era richiesta la maggioranza di cui all’articolo 1136 c.c., secondo comma (e cioè la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio). Non senza incertezze bisognerebbe continuare ad approvare l’accordo di mediazione con la stessa maggioranza.

Verifica qualità dell’acqua in condominio: nuovo decreto 18-2023, gli obblighi per gli amministratori

Gli obblighi previsti per l’amministratore di condominio dal nuovo decreto 18-2023 in materia di affidabilità degli impianti condominiali per la salubrità dell’acqua.

L’affidabilità degli impianti condominiali ha assunto notevole importanza, come si evince dall’art. 1120 c.c., in materia di innovazioni, che fa riferimento alla sicurezza e alla salubrità degli impianti.  Vediamo di seguito gli obblighi previsti per l’amministratore condominiale dalla normativa vigente, in particolare sulla distribuzione dell’acqua per il consumo umano, alla luce del nuovo decreto legislativo 18 2023.

La nuova normativa per la qualità delle acque destinate al consumo umano: Decreto 18/2023

Attualmente la situazione è cambiata in quanto, in attuazione della direttiva (UE) 2020/2184 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2020, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano, è stato emanato il decreto legislativo n. 18 del 23 febbraio 2023.

Gli obiettivi del Decreto sono:

  • la protezione della salute umana dagli effetti negativi derivanti dalla contaminazione delle acque destinate al consumo umano, assicurando che le acque siano salubri e pulite, nonché
  • il miglioramento dell’accesso alle acque destinate al consumo umano.

Nell’ambito della normativa si segnala il comma 4 dell’articolo 9 che prevede uno specifico obbligo di formazione a cura delle Regioni in coordinamento con il ministero per i gestori dei sistemi idrici interni, gli idraulici e per gli altri professionisti che operano nei settori dei sistemi di distribuzione idrici interni.

Le utili precisazioni del Decreto n. 18/2023 sulla verifica delle acque

L’articolo 4 del Decreto mette in evidenza che le acque destinate al consumo umano devono essere salubri e pulite, non devono contenere microrganismi, virus e parassiti, né altre sostanze in quantità tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana e devono soddisfare i requisiti minimi stabiliti dall’allegato I, parti A, B, C del Decreto. Quest’ultimo chiarisce che, salvo comprovate cause di forza maggiore, ivi inclusa la documentata impossibilità del di accedere o intervenire su tratti di rete idrica ricadenti in proprietà privata, la responsabilità del gestore idrico integrato si estende fino al punto di consegna, cioè il punto in cui la condotta di allacciamento idrico si collega all’impianto o agli impianti dell’utente finale (sistema di distribuzione interna), cioè in corrispondenza del misuratore dei volumi (contatore).

Acqua condominiale: responsabilità ed obblighi dell’amministratore

Il Decreto n. 18/2023 sottolinea che gestore della distribuzione idrica interna è l’amministratore di condominio, responsabile del sistema idro-potabile di distribuzione interno, collocato fra il punto di consegna e il punto d’uso dell’acqua, cioè il punto di uscita dell’acqua destinata al consumo umano, da cui si può attingere o utilizzare direttamente l’acqua, generalmente identificato nel rubinetto. L’amministratore deve effettuare una valutazione e gestione del rischio dei sistemi di distribuzione idrica interni alle strutture prioritarie (individuate all’allegato VIII, con particolare riferimento ai parametri elencati nell’allegato I, parte D). Inoltre è tenuto ad adottare le necessarie misure preventive e correttive, proporzionate al rischio, per ripristinare la qualità delle acque nei casi in cui si evidenzi un rischio per la salute umana derivante da questi sistemi.

Le sanzioni a carico dell’amministratore per la verifica dell’acqua condominiale

L’articolo 23 del Decreto prevede delle sanzioni amministrative a carico dell’amministratore. Se, nel sistema di distribuzione interno, non viene mantenuto il rispetto dei parametri elencati nell’allegato I, parti A e B è prevista una sanzione a carico dell’amministratore da euro 5.000 a euro 30.000. L’inosservanza dell’obbligo di implementazione di valutazione e gestione del rischio del sistema di fornitura idro-potabile imposti dalle competenti autorità è soggetto al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria da 4.000 a 24.000 euro.

Il controllo sulla salubrità dell’acqua potabile e obbligo di verifica

L’amministratore è obbligato a sottoporre l’acqua a controlli periodici?

Il controllo sulla salubrità dell’acqua potabile deve essere effettuato dall’ente erogatore oppure insiste un obbligo di verifica anche in capo all’amministratore, in qualità di supervisore degli impianti condominiali? La legge al riguardo non è chiara, cerchiamo di fare il punto della situazione.

Acqua potabile: definizione normativa.
Si intende per acqua potabile quella destinata al consumo umano, quella trattata o non trattata, destinata ad uso potabile, per la preparazione di cibi e bevande, o per altri usi domestici, a prescindere dall’origine, sia essa fornita tramite una rete di distribuzione, mediante cisterne, in bottiglie o in contenitori (art. 1 lett. a) n. 1 d. lgs. 31/2001).

Contratto di fornitura del condominio.
Il negozio di erogazione dell’acqua potabile è un contratto di somministrazione di natura privata pur avendo ad oggetto l’esercizio di un servizio pubblico (Cass. SU. 8103/2004).

Proprio in ragione della sua peculiare natura, il regolamento contrattuale ha delle particolarità, come il prezzo, definito da disposizioni regolamentari. Inoltre, l’ente erogatore deve rispettare la carta dei servizi. Il controllo circa il rispetto degli standard qualitativi dei servizi idrici è rimesso all’Autorità per l’energia elettrica il gas ed il sistema idrico (AEEGSI)

Gli impianti condominiali.
L’art. 1120 c.c., in materia di innovazioni, fa riferimento alla sicurezza e alla salubrità degli impianti. La norma risulta fortemente innovativa; infatti, in passato, si poneva rilievo unicamente alla sicurezza della struttura dell’edificio, mentre adesso assume importanza anche l’affidabilità degli impianti.

L’impianto idrico e i relativi collegamenti sono oggetto di proprietà comune fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche (art. 1117 n. 3 c.c.). Il d. lgs. 31/2001 offre delle definizioni molto precise in materia di distribuzione dell’acqua.

Analizziamole e poi valutiamo il ruolo dell’amministratore.
Le condutture, i raccordi, le apparecchiature installati tra i rubinetti normalmente utilizzati per l’erogazione dell’acqua destinata al consumo umano e la rete di distribuzione esterna rappresentano l’impianto di distribuzione domestico (art. 1 lett. b) n. 1 d. lgs. 31/2001).

La delimitazione tra impianto di distribuzione domestico e rete di distribuzione esterna, denominata punto di consegna, è costituita dal contatore, salva diversa indicazione del contratto di somministrazione. L’acqua viene distribuita dal gestore del servizio idrico, ossia colui che fornisce acqua a terzi attraverso impianti idrici autonomi o cisterne, fisse o mobili (art. 1 lett. c) n. 1 d. lgs. 31/2001).

Controlli: deve farli l’ente erogatore o l’amministratore?
L’art. 5 del d. lgs. 31/2001 dispone che per gli edifici e le strutture in cui l’acqua è fornita al pubblico, come i condomini, il titolare ed il titolare della gestione dell’edificio o della struttura devono assicurare che i valori di parametro fissati dalla legge, rispettati nel punto di consegna, siano mantenuti nel punto in cui l’acqua fuoriesce dal rubinetto. Il dettato normativo pare suggerire quanto segue:

  • il gestore (vale a dire chi somministra l’acqua) deve verificare la salubrità dell’acqua sino al punto di consegna (ossia il contatore);
  • l’amministratore (il titolare della gestione dell’edificio secondo la lettera della legge) deve verificare la sussistenza dei valori di legge dal punto di consegna sino al rubinetto.

Parere del Ministero della Salute: nessun obbligo per l’amministratore.
La norma così interpretata (art. 5 d. lgs. 31/2001) porrebbe un compito assai gravoso in capo all’amministratore. Sul punto è intervenuto un parere del Ministero della Salute che chiarisce la corretta interpretazione della disposizione. Il parere del 10 giugno 2004 sull’articolo 5 del d. lgs. 31/2001 statuisce che per gli edifici ad uso esclusivamente abitativo, “l’amministratore del condominio ovvero, in assenza di questo, i proprietari non hanno l’obbligo di effettuare le attività e i controlli previsti dagli artt. 7 e 8 del decreto in oggetto, bensì quello derivante dall’attività di controllo dello stato di adeguatezza e di manutenzione dell’impianto”.

In buona sostanza, l’amministratore ha la responsabilità di garantire che i requisiti di potabilità dell’acqua non vengano alterati per cause imputabili all’impianto idrico del condominio.

Il parere del Ministero, infatti, dispone che se vi sia motivo di ritenere che nella fase di trasporto dal contatore all’utenza le caratteristiche dell’acqua possano essere alterate, “l’amministratore non solo è tenuto a fare le verifiche del caso, ma soprattutto è tenuto ad adottare i provvedimenti necessari a ristabilire i requisiti di potabilità”.

I controlli che deve fare l’amministratore di condominio.
Come si è visto, spetta all’amministratore il controllo sullo stato degli impianti, compreso quello idrico. Ad avviso di chi scrive, l’amministratore, inoltre, in base allo stato della rete idrica condominiale, dovrebbe farsi carico di un controllo sulla salubrità dell’acqua.
Infatti, certune tipologie di impianti, a causa dell’usura o per i materiali utilizzati nella realizzazione delle tubature di adduzione, potrebbero esporre i condomini a dei rischi; pertanto un controllo periodico, in quelle circostanze, sarebbe quantomeno opportuno.
L’acqua, infatti, può essere portatrice di batteri letali, si pensi alla legionella, questo impone un’attenzione ancora maggiore quando si tratta di controlli.

Sanzioni penali in caso di acqua contaminata.
L’importanza di effettuare dei controlli sulla salubrità dell’acqua emerge anche dalla circostanza che il d.lgs n.31/2001 preveda sanzioni molto elevate; in particolare dispone il pagamento della somma:

  • da euro 10.329 a euro 61.974 per chi fornisca acqua che contenga microrganismi o parassiti o altre sostanze in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana (art. 19 comma 1);
  • da euro 5.164 a euro 30.987 quando i valori di parametri fissati dalla legge, rispettati nel punto di consegna, non siano mantenuti nel punto in cui l’acqua fuoriesce dal rubinetto (art. 19 comma 2).

Qualora l’amministratore, conoscendo il cattivo stato delle condutture ovvero la presenza di perdite o di cattivi odori lamentati dai condomini, non abbia preso provvedimenti ed assunto le verifiche necessarie, si presentano profili di responsabilità e può essere soggetto alle sanzioni di cui sopra. Egli, infatti, in qualità di mandatario dei condomini, deve agire con la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1710 c.c.) e compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio (art. 1130 n. 4 c.c.)

La normativa comunitaria: la direttiva acque potabili.
L’Unione Europea è sempre in prima linea nella tutela dell’ambiente. Attualmente si applica la direttiva 2015/1787/UE in materia di controlli e analisi delle acque potabili, recepita con D.M. 14 giugno 2017.

La citata direttiva ha modificato la precedente 98/83/CE del Consiglio, attuata con d. lgs. 31/2001 sopra citato come modificato dal d. lgs. 27/2002. La normativa ha lo scopo di tutelare la salute pubblica dagli effetti negativi derivanti dalla contaminazione delle acque destinate al consumo umano, garantendone la salubrità e la pulizia; mira, inoltre a verificare che le misure previste per contenere i rischi perla salute umana, in tutta la filiera idro-potabile, siano efficaci e che le acque siano salubri e pulite nel punto in cui i valori devono essere rispettati. Si segnala che allo studio della Commissione v’è una nuova direttiva che “prevede un monitoraggio sulle microplastiche nei bacini idrici e misure per migliorare l’accesso all’acqua potabile degli europei nelle aree svantaggiate”

Conclusioni.
L’amministratore non è tenuto per legge ad effettuare controlli capillari sulla salubrità dell’acqua; tuttavia su di lui grava l’obbligo di verifica sullo stato di adeguatezza e di manutenzione dell’impianto. In altre parole, l’amministratore ha la responsabilità di garantire che i requisiti di potabilità dell’acqua non vengano alterati per cause imputabili alla rete idrica condominiale. Qualora le condizioni dell’impianto (vetustà, usura, tipologia di materiali impiegati) possano cagionare un’alterazione della qualità dell’acqua, l’amministratore non solo è tenuto a fare le verifiche del caso, ma soprattutto è obbligato ad adottare i provvedimenti necessari a ristabilire i requisiti di potabilità. In difetto, è passibile delle sanzioni previste dall’art. 19 d. lgs. 31/2001.