I cinque giorni di preavviso al condomino si contano dall’avviso di giacenza della convocazione

Conta la data dell’avviso di giacenza alla posta ai fini del preavviso di cinque giorni necessario per la convocazione del condomino all’assemblea condominiale: la raccomandata non recapitata per momentanea assenza del destinatario, infatti, deve ritenersi entrata nella sfera di conoscibilità dell’interessato nel momento in cui è rilasciato l’avviso secondo cui il plico deve essere ritirato all’ufficio postale. È quanto emerge dalla sentenza 22311/16, pubblicata il 3 novembre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Presunzione e disponibilità

Accolto il ricorso del condominio nella controversia con il proprietario esclusivo che vorrebbe fosse dichiarata la nullità della delibera per non essere stato informato dell’assemblea. Sbaglia la Corte d’appello ad annullare la decisione adottata dall’assemblea sul rilievo che il termine libero di cinque giorni prescritto dall’articolo 66, terzo comma, disp. att. dovrebbe farsi decorrere dalla ricezione della convocazione da parte del condomino e non dalla relativa spedizione. In realtà nel caso della raccomandata non consegnata per l’assenza del destinatario e di una persona abilitata a riceverla è la presunzione di conoscenza ex articolo 1335 Cc a far ritenere rilevante il rilascio dell’avviso di giacenza del plico presso la posta e non il momento in cui la missiva viene consegnata. Nella specie la comunicazione è ritirata soltanto il 18 aprile ma deve ritenersi entrata nella disponibilità del condomino già il 9 del mese grazie all’avviso del postino. Parola al giudice del rinvio.

Prorogatio imperii dell’amministratore – Nomina dichiarata invalida – Potere di rappresentanza fino alla sostituzione – Legittimità – sentenza 1386 del 24-01-2016 massima 1

In tema di condominio negli edifici, la prerogatio imperii dell’amministratore, trova fondamento nella presunzione di conformità alla
volontà dei condomini e nell’interesse del condominio alla continuità dell’amministratore, e, quindi, non solo nelle ipotesi di scadenza del
termine di cui all’art. 1129 cc o di dimissioni, ma anche nei casi di revoca o annullamento per illegittimità della delibera di nomina. Ne
consegue che l’amministratore condominiale, la cui nomina sia stata dichiarata invalida, continua a esercitare legittimamente, fino
all’avvenuta sostituzione, i poteri di rappresentanza, anche processuale, dei comproprietari cui, ratione temporis, deve farsi riferimento.

La quota del condomino per l’ascensore non aumenta solo perché il suo immobile è più frequentato

Annullate. Addio alle delibere con cui il condominio ha tentato di aumentare le spese per l’ascensore a carico agli appartamenti più abitati, o frequentati da esterni, nell’ambito dell’edificio. E ciò perché il criterio, che pure si ispira a una contribuzione per un presunto maggiore utilizzo dell’impianto, risulta arbitrario perché contrario alle disposizioni legislative in materia: bisogna applicare la norma ex articolo 1124 Cc. È quanto emerge dalla sentenza 11776/16, pubblicata dalla quinta sezione civile del tribunale di Roma
(giudice Antonella Zanchetta), con una pronuncia che può essere utile agli studi professionali e alle altre attività lavorative svolte nei condomini con civili abitazioni laddove l’ente di gestione può provare a penalizzarli per il più intenso uso dei servizi comuni dell’edificio.

Diritto compresso

Accolta l’opposizione proposta da una giovane donna cinese: “a essere annullati sono il preventivo e il consuntivo del bilancio adottato da un condominio della Capitale dalle parti dell’Esquilino, la chinatown locale. E lo stop non scatta solo perché il riparto delle spese era previsto «per ciascun piano in relazione al numero delle persone che abitano in ciascun appartamento» ma anche perché aumentare gli oneri condominiali per la manutenzione dell’impianto in relazione «all’affluenza del numero dei soggetti» presso l’appartamento della ragazza compromette il suo diritto di condomina. Non pesa soltanto l’inosservanza dei criteri ex articolo 1124 Cc ma anche il contrasto con lo stesso regolamento condominiale depositato in giudizio: deve valere la regola secondo cui la spesa è ripartita, per metà in ragione del valore delle singole unità immobiliari e per l’altra metà esclusivamente in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo“.

Senza testimoni

Non trova ingresso la domanda di prova orale del condominio, probabilmente per dimostrare per testi l’andirivieni nell’appartamento “incriminato”. Né può essere accolta l’eccezione di decadenza dell’impugnazione proposta dall’ente di gestione: “in materia, conclude il giudice, occorre ribadire le distinzioni svolte dalla giurisprudenza di legittimità sulle circa le delibere nulle – quelle che hanno un oggetto impossibile, illecito, contrario a norme imperative e tale da comprimere in modo negativo incidendo sul diritto individuale del singolo condomino – da quelle annullabili, per le quali effettivamente esiste il termine decadenziale ex articolo 1137 Cc. Al condominio non resta che pagare le spese di giudizio“.

LAVORI DI APPALTO – VIZI – OBBLIGHI – RISTORO – sentenza 12098 del 14-06-2016 massima 1

Laddove vi sia riscontrata una cattiva esecuzione dei lavori di appalto, va ritenuta responsabile, in forza degli obblighi nascenti dal
contratto di appalto, la stessa ditta esecutrice dei lavori, dunque il direttore dei lavori per conto del committente, a capo di quest’ultima.
L’amministratore, stante l’esecuzione dell’opera non a regola d’arte, deve convocare la ditta appaltatrice e pretendere dalla stessa
l’eliminazione dei vizi.

Non si modificano le tabelle millesimali solo perché il locale è divenuto inservibile come deposito

Il singolo condomino non può ottenere la revisione delle tabelle millesimali soltanto perché il suo seminterrato è divenuto inservibile come magazzino a causa delle infiltrazioni d’acqua. E ciò perché il valore proporzionale di ciascuna porzione dell’edificio è calcolato sulla base delle caratteristiche proprie degli immobili e non anche rispetto alla loro destinazione d’uso. Ancora. Nelle tabelle c’è l’«errore essenziale» che ne consente la revisione soltanto quando l’inesattezza, di fatto o di diritto, riguarda gli elementi necessari per calcolare il valore delle singole porzioni: estensione, altezza, ubicazione ed esposizione. È quanto emerge dalla sentenza 19797/16, pubblicata il 4 ottobre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Ha un bel dire, il proprietario esclusivo del magazzino: “l’umidità proveniente dal sottosuolo ha reso il locale completamente inutilizzabile e, dunque, le tabelle millesimali devono essere rifatte perché non rispecchiano più la vera ripartizione del valore fra le varie proprietà esclusive. È vero, le tabelle possono essere ricalcolate anche nell’interesse di un condomino solo, ma soltanto quando risultano modificate le condizioni di una parte dell’edificio, ad esempio in caso di sopraelevazioni, innovazioni di vasta portata o espropriazioni parziali: tutte circostanze, insomma, che alterano in modo significativo l’originario rapporto fra i valori delle singole porzioni; sono invece esigenze di certezza sui diritti e gli obblighi dei condomini che impongono di ritenere irrilevanti i successivi mutamenti dei criteri di stima per la proprietà immobiliare, anche quando le varie parti dell’edificio risultano rivalutate in modo non omogeneo: non può dunque incidere sull’assetto millesimale una diversa destinazione d’uso del locale, che risulta determinata essenzialmente da valutazioni di carattere soggettivo“.

Non giova infine al singolo condominio dedurre che le tabelle sarebbero affette da errore. L’errore di valutazione dell’immobile non può mai essere ritenuto essenziale: non riguarda infatti la qualità della cosa ex articolo 1429, n. 2, Cc. E lo stesso articolo 68, ultimo comma, disp. att. Cc stabilisce che nella valutazione «non si tiene conto del canone locatizio, dei miglioramenti e dello stato di manutenzione».

Parabola e tettoia del condomino restano sul muro perimetrale perché sono discrete e non ledono il decoro

Il condominio non può ottenere che il proprietario esclusivo rimuova la pensilina e l’antenna satellitare installata sul muro perimetrale se i manufatti sono discreti e non si configura la lesione del decoro architettonico. Va detto poi che le disposizioni ex articolo 1117 Cc non si applicano alle villette bifamiliari a schiera ma soltanto agli edifici divisi in orizzontale per piani. E il regolamento condominiale ben può essere interpretato in modo elastico e dunque non deve ritenersi necessaria l’autorizzazione dell’assemblea per ogni minimo intervento eseguito dal singolo sulle pareti esterne alla villetta di proprietà esclusiva. È quanto emerge dalla sentenza 20248/16, pubblicata il 7 ottobre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Dimensioni e colore

Diventa definitiva la decisione della Corte d’appello: “né la pensilina né la parabola alterano le linee architettoniche e la fisionomia estetica del complesso immobiliare“. Decisive le foto agli atti: “la tettoia è piccola, sobria e di colore neutro e s’inserisce in modo armonico nell’ambiente. E l’antenna satellitare, che pure ha dimensioni modeste, risulta piazzata sulla facciata posteriore della villetta, come d’altronde hanno già fatto altri condomini“. La valutazione in proposito compiuta dai giudici del merito è un tipico accertamento in fatto che risulta insindacabile in sede di legittimità se motivato in modo adeguato.

Funzioni inassimilabili

Inutile poi invocare la condominialità dei muri maestri ex articolo 1117 Cc ripresa dal regolamento perché i muri perimetrali sono invece di proprietà esclusiva e non sono quindi assimilabili ai primi: hanno soltanto la funzione di delimitare le varie porzioni e di sorreggere la copertura, anch’essa di proprietà esclusiva (o in comune fra le due villette affiancate). Il regolamento, in definitiva, vieta solo innovazioni e modificazioni senza il placet dell’assemblea e per contestare quest’interpretazione il condominio avrebbe dovuto prospettare la violazione delle norme di interpretazione del contratto ex articoli 1362 Cc e seguenti. Non l’ha fatto e dunque paga le spese di giudizio.

Usucapione di parti comuni condominiali – Sentenza Corte di Cassazione n. 20039 del 6/10/2016

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza della II sezione civile del 6 ottobre 2016, n. 20039, conferma la possibilità per il condomino di usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso, essendo però necessario allegare e dimostrare di avere goduto del bene a titolo esclusivo.
Nel caso all’esame della Corte “alcuni condomini convenivano dinanzi al Tribunale di Salerno un altro condomino, e lamentando che il quest’ultimo, in occasione della ristrutturazione di alcuni suoi immobili, aveva chiuso con opere murarie e con una porta a battenti in ferro un porticato comune a tutti i condomini e, inoltre, si era impossessato di un forno e aveva demolito un pozzo comune e dei lavatoi, chiedendo la condanna alla demolizione delle opere illegittime e al ripristino dello stato dei luoghi, oltre al risarcimento danni.
Il condomino convenuto, accusato di quanto sopra, affermava di essere proprietario dei beni in questione e di averli comunque acquisiti per usucapione“.
Il Tribunale di primo grado, accogliendo la domanda, dichiarava illegittime le opere di chiusura del porticato eseguite dal convenuto, condannando quest’ultimo al loro abbattimento e al ripristino dello stato dei luoghi. La Corte di Appello di Salerno ha seguito in sostanza la decisione del giudice di primo grado.
La Corte di Cassazione, nel caso di specie, dichiarava infondato il ricorso per una mancanza intrinseca del processo, a livello soprattutto probatorio, sia in primo che in secondo grado, ma afferma un principio da non sottovalutare. La Corte di Cassazione afferma che, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza, in tema di condominio, il condomino può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso. A tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di avere goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus“, senza opposizione, per il tempo utile ad usucapire (richiamando Cass. 23­7/­2010 n. 17322).
Il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune, pertanto, deve provare di averla sottratta all’uso comune per il periodo utile all’usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituito da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l’imprescrittibilità del diritto in comproprietà“.

Rimborso delle spese anticipate: amministratore uscente può agire verso i singoli condomini

Un società conveniva in giudizio un Condominio, chiedendo la condanna al pagamento di un credito, dalla stessa maturato a titolo di anticipazione spese, durante i servizi di gestione dalla stessa svolte.
Il convenuto restava contumace. Dalla documentazione prodotta emergeva che la società attrice aveva anticipato numerose spese per conto del Condominio. La circostanza veniva altresì confermata dall’accertamento svolto dal CTU. Per di più, il prospetto contabile era stato consegnato dall’attrice al nuovo amministratore in occasione del cd “passaggio di consegne”, e questi non aveva contestato alcunché, sottoscrivendo il documento per accettazione.
Il Giudice, nell’accogliere la domanda attorea, osserva che il credito per le somme anticipate nell’interesse del Condominio, da parte dell’amministratore, trae origine da un rapporto di “mandato” che intercorre con i condomini (ex multis Corte di Cassazione, Sezione II civile, 4 ottobre 2005 n. 19348). L’amministratore di condominio, per lo stesso Tribunale, configura un “ufficio di diritto privato” orientato alla tutela del complesso degli interessi dei condomini, singolarmente considerati, che è assimilabile, pur con taluni tratti distintivi, al “mandato con rappresentanza”.
Da tale considerazione consegue che nei rapporti tra amministratore ed ognuno dei condomini, trova applicazione l’art. 1720 comma I c.c., in conformità del quale il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni fatte nell’esecuzione dell’incarico.
Nascendo l’obbligazione restitutoria a carico dei singoli condomini nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione, la situazione non muta neppure quando termina l’incarico, con la conseguenza che “la domanda dell’amministratore cessato dall’incarico, diretta ad ottenere il rimborso di somme anticipate nell’interesse della gestione condominiale, può essere proposta, oltre che nei confronti del Condominio, anche nei confronti del singolo condomino inadempiente all’obbligo di pagare la propria quota” (Corte di Cassazione, Sezione II civile, 12 febbraio 1997, n. 1286).
Il giudice conclude affermando che l’amministratore cessato dall’incarico risulta legittimato a chiedere il rimborso delle somme, dallo stesso anticipate per la gestione condominiale, sia nei confronti del Condominio legalmente rappresentato dal nuovo amministratore sia, cumulativamente, nei confronti di ogni singolo condomino, la cui obbligazione di rimborsare all’amministratore, mandatario, le anticipazioni da questo operate nell’esecuzione dell’incarico, deve considerarsi sorta nel momento stesso in cui avviene l’anticipazione e per effetto di essa, e non può considerarsi estinta dalla nomina del nuovo amministratore, che amplia la legittimazione processuale passiva senza eliminare quelle originali, sostanziali e processuali.

Parabola e tettoia del condomino restano sul muro perimetrale perché sono discrete e non ledono il decoro

Il condominio non può ottenere che il proprietario esclusivo rimuova la pensilina e l’antenna satellitare installata sul muro perimetrale se i manufatti sono discreti e non si configura la lesione del decoro architettonico. Va detto poi che le disposizioni ex articolo 1117 Cc non si applicano alle villette bifamiliari a schiera ma soltanto agli edifici divisi in orizzontale per piani. E il regolamento condominiale ben può essere interpretato in modo elastico e dunque non deve ritenersi necessaria l’autorizzazione dell’assemblea per ogni minimo intervento eseguito dal singolo sulle pareti esterne alla villetta di proprietà esclusiva. È quanto emerge dalla sentenza 20248/16, pubblicata il 7 ottobre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Dimensioni e colore

Diventa definitiva la decisione della Corte d’appello: né la pensilina né la parabola alterano le linee architettoniche e la fisionomia estetica del complesso immobiliare. Decisive le foto agli atti: “la tettoia è piccola, sobria e di colore neutro e s’inserisce in modo armonico nell’ambiente. E l’antenna satellitare, che pure ha dimensioni modeste, risulta piazzata sulla facciata posteriore della villetta, come d’altronde hanno già fatto altri condomini“. La valutazione in proposito compiuta dai giudici del merito è un tipico accertamento in fatto che risulta insindacabile in sede di legittimità se motivato in modo adeguato.

Funzioni inassimilabili

Inutile poi invocare la condominialità dei muri maestri ex articolo 1117 Cc ripresa dal regolamento perché i muri perimetrali sono invece di proprietà esclusiva e non sono quindi assimilabili ai primi: hanno soltanto la funzione di delimitare le varie porzioni e di sorreggere la copertura, anch’essa di proprietà esclusiva (o in comune fra le due villette affiancate). Il regolamento, in definitiva, vieta solo innovazioni e modificazioni senza il placet dell’assemblea e per contestare quest’interpretazione il condominio avrebbe dovuto prospettare la violazione delle norme di interpretazione del contratto ex articoli 1362 Cc e seguenti. Non l’ha fatto e dunque paga le spese di giudizio.

Il richiamo al regolamento condominiale nel rogito basta a limitare la destinazione d’uso dell’immobile

Chi compra l’appartamento accetta il regolamento condominiale di natura contrattuale richiamato nel rogito anche se esso non risulta trascritto nell’atto di acquisto: basta il semplice riferimento contenuto nel contratto per far ritenere approvate dall’acquirente le relative regole, comprese quelle che pongono limiti alla proprietà esclusiva, come ad esempio l’obbligo di adibire gli immobili dell’edificio soltanto allo svolgimento di libere attività professionali. È quanto emerge dalla sentenza 19212/16, pubblicata il 28 settembre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Senza conflitto

Accolto il ricorso di alcuni avvocati contro la sentenza che ha ritenuto legittimo l’affitto di un appartamento a un centro estetico in barba al regolamento condominiale. E la presenza della beauty farm nell’edificio disturba gli uffici vicini anzitutto per la musica sparata a palla e poi per l’utilizzo «smodato» delle strutture dell’edificio. Sbaglia la Corte d’appello a concludere per l’inapplicabilità della clausola regolamentare sul rilievo che «non si può presumere l’avvenuta trascrizione del regolamento per essere un obbligo posto a carico del notaio rogante, in difetto di prova dell’avvenuta annotazione». In realtà non conta se il regolamento condominiale sia o meno materialmente inserito nell’atto di acquisto: è sufficiente richiamarlo nel rogito per porre limiti alla proprietà esclusiva di ciascun condomino, a patto che i paletti posti siano spiegati in modo chiaro ed esplicito dalle relative clausole. La trascrizione, salvo casi particolari, serve soprattutto per risolvere conflitti tra diritti reciprocamente incompatibili. E il conflitto non si verifica quando una proprietà risulta espressamente acquistata come limitata da diritti altrui: il bene non viene trasferito come libero né l’acquirente può pretendere che lo diventi a posteriori. Parola al giudice del rinvio.