Dimensioni e caratteristiche strutturali del sottotetto

“Se il sottotetto ha dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l’uso come vano autonomo e se esso risulta in concreto, sia pure in via potenziale, oggettivamente destinato all’uso comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune, va annoverato tra le parti comuni, dovendosi in tal caso applicare la presunzione di comunione prevista dalla norma di cui all’art. 1117 c.c., la quale si ritiene operi ogni volta che nel silenzio del titolo il bene sia suscettibile, per le sue caratteristiche, di utilizzazione da parte di tutti i proprietari esclusivi”.

Impugnazione della deliberazione dell’assemblea condominiale

“L’art. 1136, co. 2, 3, 4 e 5 Cc, afferma che le deliberazioni de quibus devono essere approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza, semplice o qualificata, dei partecipanti alla riunione e del valore dell’edificio e che sebbene tale disposto normativo non contempli altrettanto espressamente l’individuazione e la verbalizzazione dei nominativi dei partecipanti alla votazione, dissenzienti e astenuti, né l’indicazione dei valori delle rispettive quote millesimali, ciononostante siffatte indicazioni risultano essere essenziali al fine non solo di permettere la verifica dell’avvenuto raggiungimento della maggioranza prescritta per la validità della deliberazione, ma anche allo scopo di consentire la chiara individuazione dei votanti favorevoli e contrari sia per far emergere ipotesi di conflitto di interessi, sia per individuare i condomini legittimati ad impugnare la stessa deliberazione. Per l’effetto, l’omessa verbalizzazione dell’indicazione nominatim dei singoli condomini favorevoli e contrari e delle loro quote di partecipazione al condominio viola la disciplina dettata nell’art. 1136 Cc, impedendo il controllo sulla sussistenza delle specifiche maggioranze richieste dalla stessa norma in ordine alle singole questioni”.

Riscossione dei contributi: niente questioni attinenti alla validità della delibera

“In tema di opposizione a decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo emesso ai sensi dell’art. 63 disp. att.Cc per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea, il condomino opponente non può far valere questioni attinenti alla validità della delibera condominiale ma solo questioni riguardanti l’efficacia della medesima. Tale delibera infatti costituisce titolo di credito del condominio e, di per sé, prova l’esistenza di tale credito e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel giudizio di opposizione che quest’ultimo proponga contro tale decreto, e il cui ambito è dunque ristretto alla sola verifica della esistenza e della efficacia della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere”.

Non ha un registro a norma di privacy? L’amministratore non può essere rimosso

Anche se non tiene un registro a norma di privacy, l’amministratore non può essere rimosso. Ciò significa che non è un problema, per l’amministratore, non tenere un doppio registro dell’anagrafe condominiale, uno completo e l’altro depurato da tutti i dati sensibili, da mostrare, su richiesta, ad un proprietario esclusivo. “Le esigenze di tutela della privacy devono essere garantite con un documento solo. Il singolo condomino deve dunque accontentarsi delle informazioni fornitegli dall’amministratore al netto dei dati catastali degli immobili vicini al suo“.

E se l’amministratore di condominio, per esempio, è un avvocato, questi è liberissimo di conservare il registro nel proprio studio. Questo è quanto stabilisce il decreto 3842/16, pubblicato dalla terza sezione civile della Corte di appello di Milano.

L’amministratore non può essere rimosso per non avere un registro a norma di privacy: il caso

Stando al secondo comma dell’articolo 1129 CC, ogni interessato ha il diritto a prendere visione del registro di anagrafe condominiale. Ma il fatto che la norma parli di “soggetti interessati” ne circoscrive in qualche modo l’accesso, come se escludesse l’esistenza di un diritto “incondizionato e illimitato” dei condomini a prendere visione di questo documento.

Spetta pertanto all’amministratore il compito di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di protezione della privacy  dei condomini e sulle richieste dei singoli proprietari di accedere ai al registro di anagrafe condominiale per degli interessi comuni. Dovendo infatti rispettare il decreto legislativo 196/03, l’amministratore deve adottare ogni tipo di azione necessaria a tutelare la privacy dei propri condomini. Per esempio, alla ditta che deve eseguire lavori all’interno di uno stabile, l’amministratore non può e non deve comunicare tutti i dati richiesti. E se un condomino è contrario a questo modo che l’amministratore ha di tenere il registro di anagrafe condominiale, non può ottenere la sua rimozione, anche se questi, al rinnovo della carica, non ha ancora comunicato i propri dati al condominio.

Abbattimento dell’albero in cortile: il Comune deve mostrare la perizia

Se si vuole l’abbattimento dell’albero in cortile, il Comune è obbligato a mostrare ai proprietari esclusivi le carte sulle quali è espresso il giudizio dell’amministrazione sull’eventuale pericolosità dell’arbusto in questione.  Lo ha stabilito la sentenza 7332/16, emessa dalla sezione seconda bis del Tar Lazio, basandosi sulla perizia di un agronomo che ha attestato che un pino marittimo posto sul cortile di un condominio sarebbe potuto cadere da un momento all’altro.

Per questo motivo, l’ente locale avrebbe esortato l’amministratore dello stabile in questione a provvedere immediatamente alla rimozione dell’arbusto.

Abbattimento del’albero in cortile: il caso

Visto però, che questo arbusto, con la sua ombra, protegge più di un appartamento dal calore estivo, uno dei proprietari esclusivi avrebbe chiesto al Comune di vedere la perizia secondo la quale l’albero era stato giudicato un pericolo. E lo stesso Comune, dal canto suo, non può negare l’accesso ai documenti, in quanto ogni singolo condomino ha, in base alla legge sulla trasparenza, il diritto di prendere visione delle carte in questione. Pertanto, il Comune dovrà tirare fuori la perizia entro, e non oltre, un mese.

Inoltre, secondo la legge, le spese per la rimozione dell’arbusto ricadono sull’ente di gestione, ovvero sulla collettività dei proprietari. A questo punto, quindi, un condomino affezionato all’albero ha voluto consultare la relazione dell’agronomo e conoscere il parere dell’ufficio tecnico del comune. Questi, in base all’articolo 22 della legge 241/90, in quanto proprietario esclusivo, risulta titolare di una posizione qualificata.

L’amministrazione, dal canto suo, è tenuta a riconoscere implicitamente che la richiesta del condomino è assolutamente legittima e, visto che non ha ottemperato al suo compito, è tenuta, per volere del giudice, a pagare le spese di giudizio al condomino. Inoltre, qualora l’albero fosse già stato abbattuto, è probabile che la causa tra le due parti non finisca qui.

Interventi di manutenzione straordinaria e clausola penale

Spesso all’interno di un condominio si deve procedere ad eseguire interventi di manutenzione straordinaria. un esempio su tutti è il rifacimento del tetto: “l’assemblea delibera i lavori, istituendo il relativo fondo spese o stabilendo il versamento a rate, ai Sal (articolo 1135 del Codice civile, come modificato dalla legge 220.2012). E nel contratto di appalto è prevista la clausola penale. Sul tema è intervenuta la recente decisione della Cassazione n. 13902/2016 del 7.7.2016“.
Nel caso di specie, l’impresa appaltatrice aveva già ottenuto l’ingiunzione per il pagamento del saldo; il condominio, invece, si opponeva con varie motivazioni, tra cui spiccava quella riguardo l’eccessiva onerosità della penale, unico motivo portato in Cassazione. La Corte di Appello. dal canto suo,  aveva già preso in considerazione la riduzione della penale già operata dal condominio, facendola anche decorrere dalla data dell’inizio della causa, decidendo pertanto di non effettuare alcuna riduzione a equità. Il condominio, invece,  lamentava “la violazione dei principi della clausola penale (art. 1382 c.c.) e dei tassi di interesse (art. 1815 c.c.): l’importo giornaliero della penale decorrente dall’inizio della causa comportava il superamento della soglia del tasso usuraio“.

Interventi di manutenzione straordinaria: la decisione della Cassazione

Per questi motivi, la  Suprema Corte ha ritenuto fondate le motivazioni, ha delineato una nuova finalità della penale: “la realizzazione dell’equilibrio delle parti del contratto, evitando l’abuso di posizione dell’adempiente, senza tutelare l’inadempiente ma bilanciando il rapporto contrattuale. Fino a ieri la penale era definita negozio autonomo, con oggetto e funzione propria (Cass. 16492/2002 e Cass. 6561/1991). In passato si leggeva che: «il contraente adempiente ha diritto di richiedere il risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento o all’inesatto adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto, ai sensi dell’art. 1453, comma 1, del Codice civile in ogni caso e, cioè, sia quando egli chieda anche la risoluzione del contratto, sia quando rivendichi la relativa esecuzione, ed anche quando le conseguenze dell’inadempimento siano ancora eliminabili o attualmente eliminate, per cui la pretesa risarcitoria è accoglibile solo in relazione al pregiudizio realizzato nel tempo dell’inadempimento e fino alla cessazione di questo». (Cass. 5100/2006; Cass. 9926/2005)“.
Quindi, con la decisione n. 13902.2016 dove «il riferimento all’interesse del creditore contenuto nella norma e considerato che la possibilità della riduzione ad una misura equa trova la sua r della Suprema Corte ragion d’essere nell’interesse del debitore inadempiente, consente di identificare quel criterio nell’equo contemperamento degli interessi contrapposti, che assicuri, cioè, il posizionamento del soggetto adempiente sulla curva di indifferenza più vicina a quella su cui si sarebbe co0llocato qualora il contratto fosse stato adempiuto».

Per concludere, ecco l’affermazione, assolutamente degna di nota, del Collegio: «D’altra parte, tenuto conto che dal nuovo e moderno sistema contrattuale, quale viene sempre più emergendo, anche dalla normativa europea, corollario di un liberismo che al contempo è anche solidaristico, emerge una maggiore attenzione per la giustizia contrattuale, cioè per un contratto che non presenti né uno squilibrio strutturale, né e soprattutto uno squilibrio tra prestazioni o di contenuto, appare ragionevole che anche la clausola penale debba essere espressione di un corretto equilibrio degli interessi contrattuali contrapposti».

Condominio: chi brucia plastica commette reato

In condominio, chi brucia plastica commette reato. Lo ha deciso la terza sezione penale della Cassazione che, ribaltando il giudizio espresso in primo grado, con la sentenza n. 24817 del 15 giugno 2016, ha sancito che chi brucia plastica, con conseguente emissioni di fumi maleodoranti e fastidiosi che turbano la tranquillità del vicinato, incorre nel reato di “Getto pericoloso di cose” (art. 674 del codice penale), un reato che, in questo caso, ha carattere sia istantaneo che permanente.

Ne consegue che chi brucia plastica e provoca l’emissione di fumi maleodoranti e fastidiosi, anche una sola volta, integra questa tipologia di reato.

Chi brucia plastica commette reato: il fatto

 

Vivere all’interno di un condominio, si sa, porta spesso a scontrarsi con i comportamenti scorretti e spesso maleducati di altri condomini che, a loro insaputa, possono addirittura compiere azioni che hanno una rilevanza penale. Questo, per esempio, accade quando l’inquilino di un appartamento decide, non curandosi affatto dei fastidi che potrebbe arrecare ai vicini, di bruciare del materiale di plastica, senza sapere, fra le altre cose, che nel momento stesso in cui decide di farlo sta per commettere un reato penale.

Questo tipo di comportamento, infatti, è recentemente giunto all’esame della terza sezione penale della Cassazione, che si è trovata a giudicare un uomo (imputato del reato di “Getto pericoloso delle cose” ex art. 674 c.p.) che aveva bruciato del materiale in plastica provocando l’emissioni di fumi maleodoranti che hanno infastidito, e non poco, gli inquilini di un edificio condominiale che sorge nelle vicinanze del luogo in cui si sono svolti i fatti.

Pertanto, l’uomo, è stato subito sottoposto a procedimento penale per il reato di cui all’art. 674 cp che stabilisce che: “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206“.

Chi brucia plastica commette reato: le sentenze

 

 

 

Una volta concluso il procedimento penale, il Giudice ha deciso di non accogliere la richiesta del pubblico ministero, che aveva richiesto l’emissione di un decreto penale di condanna, e di prosciogliere l’imputato poiché il fatto era stato ritenuto non sussistente.

Il Procuratore generale presso il Tribunale di Asti ha pertanto proposto il ricorso per Cassazione avverso la sentenza di proscioglimento per “inosservanza o erronea applicazione della legge penale”.

Il giudice di primo grado, dal canto suo, avrebbe ritenuto insussistente il reato di cui all’art. 674 cp perché da diverse testimonianze era emerso che la condotta adottata dall’inquilino era sporadica ed occasionale.

 

Nonostante ciò, il Procuratore della Repubblica presso la Cassazione ha accolto il ricorso annullando così la sentenze di primo grado, e al contempo ha deciso di effettuare un’attenta ricostruzione dei fatti. Questa ha portato quindi ad un ribaltamento della sentenza di proscioglimento e all’emissione di una sentenza di condanna dell’umo che, secondo il giudice della terza sezione penale della Cassazione, avrebbe potuto essere prosciolto solo se fosse stata provata la sua più totale innocenza.La sentenza della terza sezione penale della Cassazione.

Inoltre, sempre secondo il giudice della Cassazione, “il Gip ha erroneamente assolto l’imputato perché “non sussisterebbe il reato in quanto la condotta non avrebbe avuto carattere permanente ma solo occasionale e ciò sulla base delle dichiarazioni testimoniali dei vicini di casa dell’imputato”.

La sentenza del giudice della Cassazione sancisce, invece, che “le conclusioni che hanno ispirano il giudice in primo grado non sono condivisibili poiché disattendono palesemente un principio già espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il reato di getto di cose pericolose, di cui all’art. 674 c.p., ha di regola carattere istantaneo e solo eventualmente permanente, dato che la permanenza va richiesta solo quanto le illegittime emissioni sono connesse all’esercizio di attività economiche legate al ciclo produttivo“. (Cass. pen. Sez. I, 13.11.1997 n. 2598)

Pertanto, la Cassazione ha deciso di annullare la sentenza di proscioglimento dell’imputato emessa in primo grado e di emetterne una nuova di condanna per aver bruciato plastica in condominio.

Grondaie intasate dalle foglie del vicino: non spetta alcun risarcimento

Se le grondaie sono intasate dalle foglie del vicino, non spetta alcun risarcimento. Ebbene sì, se dall’albero del vicino cadono foglie e aghi sul tuo tetto, non hai alcun diritto a richiedere il risarcimento per il possibile danno che comporterebbe l’intasamento delle grondaie. Inoltre, non è possibile nemmeno richiedere un contributo fisso per la pulizia annuale.

Questo è quanto ha stabilito, con la sentenza n. 3550 del 20 novembre 2014, il Tribunale di Padova in merito al possibile risarcimento del danno derivante dalla mancata pulizie delle grondaie. +

Grondaie intasate dalle foglie del vicino: Il caso

Tutto risale a quando l’inquilino di uno stabile ha chiamato in causa il fratello, poiché all’interno della proprietà di quest’ultimo c’era una conifera con foglie aghiformi e piccoli frutti che, ogni volta che si staccavano, a causa del vento finivano sulla grondaia dell’abitazione confinante e, visto che questi non venivano rimossi annualmente, avrebbero potuto, secondo la persona con la grondaia intasata, provocare danni ingenti in futuro.

Per questo motivo, quindi, la persona in questione ha deciso di chiedere al giudice di condannare il fratello ad eliminare il problema e a farsi carico, oltre che della pulizia annuale della propria grondaia, di un risarcimento preventivo in vista di danni futuri. Ma, presentandosi all’udienza, l’accusato ha contestato in pieno le richieste avanzate dal fratello.

Grondaie intasate dalle foglie del vicino: il giudizio della Corte

Pertanto, essendoci alla base una richiesta di risarcimento preventivo in vista di danni futuri, è opportuno, per il giudice, fare chiarezza sul termine danni futuri, con il quale si “allude alle conseguenze patrimonialmente sfavorevoli non attuali che sono destinate a prodursi con riferimento ad un evento dannoso già verificatosi“.

E’ dunque sbagliato usare il termine danni futuri, poiché “future sono piuttosto le conseguenze sfavorevoli dell’evento dannoso”.

Fatta dunque questa dovuta premessa, il problema, secondo i giudici, “è quello di conciliare la futuritá di tale pregiudizio con il criterio legale in base al quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta dell’illecito: si ponga mente al fatto che il disposto dell’art. 1223 cod.civ. è ritenuto per lo più applicabile anche in tema di illecito extracontrattuale“.

Grondaie intasate dalle foglie del vicino: a chi tocca pagare?

Precedentemente, con la sentenza n. 10072 del 27 aprile 2010, la Cassazione aveva stabilito che “il danno futuro va risarcito anche qualora sia soltanto rilevantemente probabile“. E in questo modo si capisce che “la certezza che deve sussistere per rendere risarcibile il danno futuro non è la stessa di quella che caratterizza il danno presente, ma soprattutto che per risarcire un danno futuro non basta la mera eventualità di un pregiudizio futuro, mentre è sufficiente la fondata attendibilità che esso si verifichi: questo accade ogni volta che tale pregiudizio appare come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocabilmente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto“.

Nel caso in esame, quindi, secondo il giudice del Tribunale di Padova non vi è alcuna prova del danno futuro, ma solo una mera probabilità che non è sufficiente per condannare il fratello vicino, nella cui proprietà è presente una conifera con foglie aghiformi. Nella fattispecie il giudice si è appellato all’art. 2051 del c.c. sulle responsabilità del custode, e ha stabilito che “il proprietario di un albero non può essere responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per la sola caduta di foglie sul fondo confinante, non ricorrendo né il carattere lesivo dell’evento, trattandosi di fenomeno del tutto naturale e inoffensivo, né la pericolosità della cosa (pianta) in relazione all’evento dedotto e neanche la possibilità di prevenzione dello stesso ad opera del proprietario della pianta, potendo, se mai, essere assoggettata la riferita condotta alla disciplina prevista per i rapporti di vicinato“. (In tal senso Cass. sez. III, 9.8.07, n. 17493).  Pertanto il giudice ha rigettato il ricorso dell’uomo che voleva essere risarcito preventivamente in vista di un danno futuro.

 

L’amministratore ritarda nel pagare la ditta che esegue i lavori? Spetta al condominio versare gli interessi di mora

L’amministratore ritarda nel pagare la ditta che esegue i lavori nello stabile? Allora il condominio è tenuto a versare gli interessi di mora. Questo è quanto ha stabilito il Tribunale di Roma con la sentenza n.225 dell’11 gennaio 2016 in tema di responsabilità dell’amministratore di condominio nel contratto di appalto.

Si è giunti a questa sentenza dopo che una ditta di pulizie aveva fatto ricorso al Tribunale chiedendo un decreto ingiuntivo nei confronti del condominio per il pagamento di una somma dovuta dopo che la stessa ditta aveva prestato un servizio di pulizia in uno stabile. Questa somma, ovviamente, comprendeva, oltre a quanto dovuto per il servizio, gli interessi di mora maturati fino a quel periodo.

Il condominio, dal canto suo, si opponeva a tale decreto e richiedeva un compenso per le maggiorazioni rispetto al prezzo d’appalto inizialmente concordato.

Se l’amministratore ritarda nel pagare la ditta che esegue i lavori, paga il condominio?

Nei poteri attribuiti all’amministratore di condominio dall’articolo 1130 c.c. rientra quello di stipulare contratti necessari per provvedere, nei limiti della spesa approvata dall’Assemblea, tanto all’ordinaria manutenzione quanto alla prestazione dei servizi comuni, contratti, pertanto, vincolanti per tutti i condomini ai sensi dell’articolo 1131 cc.

Anzi, se l’amministratore di un condominio autorizzato dall’assemblea dei condomini senza riserva di approvazione di talune clausole, alla stipula di un contratto di appalto per provvedere alla manutenzione di parti comuni dell’edificio, validamente può pattuire, per il caso di ritardo nel pagamento del corrispettivo all’appaltatore, interessi moratori superiore al tasso legale e il condominio è obbligato l’adempimento del debito derivante da tale clausola né comunque il preteso credito per pagamenti indebiti opposto in compensazione si rivelerebbe di facile e pronta liquidazione“.

L’amministratore ritarda nel pagare la ditta che esegue i lavori? Il condominio non deve nulla se l’assemblea prima lo approva all’unanimità

Secondo il giudice del Tribunale di Roma, una volta accertati i fatti, è emerso chiaramente che vi era un accordo contrattuale tra le due parti (condominio e ditta di pulizie) che prevedeva il versamento degli interessi di mora alla ditta nel caso in cui ci fosse stato un ritardo nel pagamento da parte dell’amministratore.

Chiarito ciò, “nella vicenda in esame, conformemente a quanto precisato dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice romano ha avuto modo di precisare che l’amministratore condominiale ha il potere, ai sensi degli articoli 1130, 1131, numero 3, e 1135, numero 4, del c.c., di stipulare, vincolando i condomini, i contratti necessari per provvedere alla manutenzione ordinaria dei beni comuni nonché alla loro manutenzione straordinaria, la quale sia stata deliberata dall’assemblea dei condomini – salva l’ipotesi in cui quest’ultima, nel deliberare l’esecuzione di lavori di straordinaria manutenzione, abbia riservato a sé l’approvazione delle singole clausole di quella stipulazione – con eccezione per le opere urgenti, in relazione alle quali può provvedere immediatamente, riferendone alla prima adunanza“.

Ne consegue che, se l’amministratore di un condominio è autorizzato dall’assemblea dei condomini, alla stipula di un contratto d’appalto che prevede il versamento degli interessi di mora in caso di ritardo dei pagamenti alla ditta che esegue i lavori in una parte comune del condominio, il condominio, a sua volta, è obbligato all’adempimento del debito derivante da questa clausola. (In tal senso Cass. 1640/1997 e Cass.3159/1993).

Per questo motivo, il Tribunale di Roma ha rigettato il ricorso del condominio che, pertanto, dovrà versare alla ditta di pulizie l’intera cifra pattuita più gli interessi di mora.

Cosa accade se un Amministratore non ha i requisiti?

Quella dell’amministratore di condominio è una figura molto complessa che ha oggi connotazioni normative del tutto nuove, sconosciute al codice del 1942.
“Un ruolo che allora era indefinito, quanto a forma e caratteristiche, è stato oggi disegnato dalla L. 220/12 e dalla L. 4/2013, che hanno profondamente inciso sulle caratteristiche necessarie per svolgere l’incarico.
L’art. 71 bis disp.att. cod.civ., introdotto dalla legge 220/2012 disciplina i requisiti per lo svolgimento dell’incarico, mentre la L. 4/2013 prevede quelli richiesti per esercitare in forma professionale l’attività”. Ma cosa accade se un Amministratore non ha i requisiti?
Innanzitutto, c’è da dire che entrambe le normative non si coordinano affatto tra di loro a lasciano parecchio perplessi, poiché introducono aspetti simili ma non del tutto e non sempre coincidenti fra di loro.

Se l’amministratore non ha i requisiti la sua nomina è nulla?

Senza dubbio il legislatore di questi anni ha inteso riconoscere all’amministratore una valenza sociale e una rilevanza significativa quale strumento di tutela di interessi diffusi, pretendendo che la figura destinata al compito delicatissimo e complesso di gestire una rilevante componente del patrimonio immobiliare nazionale possieda parametri di affidabilità e professionalità, così come delineati dalle nuove norme che travalicano il mero rapporto privatistico che intercorre con i condomini che conferiscono l’incarico. 
Vi è quindi chi ha letto nella normativa in vigore la caratteristica di norma imperativa, estendendo tale natura non solo alle previsioni con più certa valenza pubblicistica che regolano lo svolgimento della professione ma anche alle disposizioni contenute nell’art. 71 bis disp.att. cod.civ., così che per alcuni interpreti la mancanza dei requisiti dettati dal codice civile comporterebbe nullità della nomina per contrarietà a norme imperative e – per alcuni lettori estremi – anche nullità di tutti gli atti compiuti dall’amministratore che dovesse trovarsi a svolgere l’incarico in assenza di tali requisiti. 
Taluno ha richiamato anche la c.d. nullità di protezione, che deriverebbe dall’art. 36 del c.d. codice del consumo, tesi che avrebbe peraltro possibile applicazione solo ove il l’amministratore abbia dolosamente occultato l’assenza dei requisiti e non ove l’assemblea abbia deliberatamente accettato quella assenza“.
Queste posizioni, che non sono per nulla prive di suggestioni, rischiano però di assumere una connotazione estrema nonché di apparire poco legate al dato testuale; soprattutto il richiamo ad un vizio grave e radicale come la nullità della nomina, introduce delle conseguenze molto gravi dagli esiti imprevedibili: per questo motivo si rende del tutto necessaria  una disamina diversa e più ponderata, soprattutto da chi pretende di porsi dalla parte dell’amministratore, che ha di recente e finalmente “trovato una disciplina che – seppur assai perfettibile – finalmente ne riconosce il ruolo e la professionalità“.
Appare quindi del tutto plausibile “che l’amministratore di condominio debba rispondere a parametri che – travalicando il mero interesse civilistico – assicurino alla collettività che quella figura sia rivestita da un soggetto che garantisce affidabilità professionale, patrimoniale e personale. L’intero impianto della L. 4/2013 modula la figura dell’amministratore professionista su parametri astrattamente riconducibili alle professioni ordinistiche, con controlli a natura pubblicistica su formazione, onorabilità, tutela del consumatore, aggiornamento, ovvero tutti quei requisiti che paiono idonei a soddisfare quegli interessi pubblici e diffusi che il legislatore mostra di voler tutelare. Si può discutere se il metodo scelto sia idoneo allo scopo, ma è indubitabile che la legge sulle professioni non ordinistiche sia volta a garantire erga omnes la qualità del professionista.
Tale normativa viene emanata nel gennaio 2013, a pochi mesi di distanza dalla legge 220/2012 che prescrive a sua volta parametri assai vincolanti anche per lo svolgimento dell’incarico; appare improbabile che il legislatore abbia manifestato così tanta schizofrenia – sovrapponendo normative inconciliabili – così che assimilare i due testi in una unica lettura a carattere pubblicistico potrebbe essere fuorviante: in realtà l’art. 71 bis disp.att. cod.civ. prevede alcuni requisiti di onorabilità e alcuni requisiti culturali per svolgere l’incarico. L’uso del termine “svolgere” e non di quello “assumere” sembra spostare l’attenzione del legislatore civile sul momento di esecuzione della prestazione e non su quello genetico della stessa. 
A ciò si aggiunga che la stessa norma prevede – per il solo venir meno dei requisiti soggettivi di onorabilità – il rimedio espresso della cessazione dall’incarico, mentre nulla prevede ove non sussistano quelli relativi alla formazione.
Se il rimedio della cessazione appare di lineare applicabilità ove i requisiti vengano meno durante lo svolgimento dell’incarico (condanna passata in giudicato, protesto cambiario, etc.) ci si chiede quali conseguenze comporti l’assenza di tali presupposti sin dal momento della nomina, ovvero in quei casi in cui l’assemblea intenda coscientemente nominare amministratore un soggetto che non risponde a tutti i parametri della norma“.

Ecco cosa accade se l’amministratore non ha i requisiti

In tal senso, viene in aiuto un’ autorevolissima dottrina che afferma “che la previsione contrattuale che violi norme imperative (ammesso che all’art. 71 bis disp.att. cod.civ. debba riconoscersi tale natura) non riconduce necessariamente all’applicazione rigida dell’art. 1418 cod.civ. in tema di nullità del contratto, poiché la stessa norma nullità prevede che tale gravissimo vizio colpisca il contratto solo ove espressamente la legge lo preveda. Nello stesso solco interpretativo si pone un rilevante orientamento giurisprudenziale che ascrive alla categoria alla c.d. nullità virtuale tale ipotesi: “in difetto di espressa previsione in tal senso (cd. “nullità virtuale”), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, la quale può essere fonte di responsabilità” Cass. 2394/2015.
Il tema è complesso e richiede un approfondimento che travalica i limiti di queste riflessioni, tuttavia appare assai plausibile – alla luce degli orientamenti appena rammentati – una lettura che si discosti dalla tesi della nullità e si arresti al dato testuale della cessazione dall’incarico, tenuto conto che la stessa norma non ascrive la necessaria presenza di quei requisiti al momento genetico del rapporto ma al suo svolgimento, con il prodursi degli effetti della loro mancanza nel momento dell’adempimento e sul piano dell’efficacia e della responsabilità fra contraenti, categorie che anche sotto il profilo sistematico appaiono più pertinenti alla collocazione e connotazione civilistica della norma di attuazione“.
Ne consegue che, se l’amministratore non ha i requisiti, l’Assemblea può ricorrere al giudice per far dichiarare inefficace la sua nomina, e pertanto far cessare immediatamente la sua attività. ricorrendo all’art. 1105 cod. civ. nel caso in cui non si riuscisse a nominarne subito un altro.
Va ancor più sottolineato che la sola assenza dei requisiti culturali, che il legislatore mostra di considerare di minor rilievo non ancorando alla loro mancanza alcuna sanzione diretta e addirittura considerandoli superflui per il soggetto che amministri uno stabile in cui ha una proprietà, non è munita di sanzione diretta. A tal proposito va sottolineato che per taluni interpreti la mancanza di queli requisiti darebbe luogo a mera revoca ai sensi dell’art. 1129 cod.civ. con facoltà del giudice di apprezzare di volta in volta la gravità della violazione) mentre per una recentissima pronuncia, alla luce del ero dato testuale dell’art. 71 bis disp.att. cod.civ. – l’assenza dei requisiti rimarrebbe addirittura senza sanzione (Trib. Genova 3.6.2016)“.