Regolamento condominiale – Clausole che derogano al criterio legale di ripartizione delle spese. Art.1123 c.c.

Tribunale di Roma sentenza 8502, sezione Quinta Civile del 02-05-2017

Le clausole regolamentari – quali quelle che derogano ai criteri di riparto ex art. 1123 cc e più in generale quelle che pongono a carico di soggetti diversi dai proprietari delle singole unità proporzionalmente tenuti, propter rem, al pagamento degli oneri dovuti così limitando i diritti dominicali dei singoli condomini sulle loro proprietà esclusive- per essere opponibili, ove lecite, devono essere approvate da tutti i condomini in quanto hanno valore negoziale.

Lavori urgenti e rimborso delle spese anticipate dal singolo condomino.

Cassazione Sentenza sentenza 17393 del 13-07-2017

Premesso che l’articolo 1134 Cc trova applicazione anche nel cosiddetto condominio minimo, e che pertanto il rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, in assenza di autorizzazione assembleare, presuppone l’urgenza, la nozione di indifferibilità dei lavori va interpretata anche in connessione all’oggettiva convenienza economica di effettuare tutti i lavori necessari nell’unico contesto temporale, nella prospettiva dell’analisi economica del diritto.

Da rimuovere il condizionatore se occupa il 60 per cento della superficie esterna disponibile

Cassazione sentenza 17400 del 13-07-2017

Va rimosso il condizionatore se occupa il 60 per cento della superficie esterna disponibile non permettendo agli altri condomini di farne lo stesso uso (nel caso di specie, sulla base delle risultanze acquisite, il tribunale ha confermato la decisione di prime cure, ritenendo integrata la violazione della norma che prescrive il pari godimento della cosa comune, in quanto l’impianto di condizionamento dell’aria installato dai ricorrenti, occupando il 60% in superficie disponibile, impediva l’installazione di un analogo apparecchio da parte degli altri condomini del piano. In mancanza del consenso di quest’ultimi o di un loro comportamento inerte l’installazione costituisce una lesione del loro diritto; né d’altronde può richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte sul godimento turnario o differenziato nel tempo e nello spazio, giacché la stabilità dell’installazione altera, definitivamente, il rapporto di equilibrio tra i condòmini nel godimento dell’oggetto della comunione).

Usucapione di parti comuni condominiali

Sentenza Corte di Cassazione n. 20039 del 6/10/2016

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza della II sezione civile del 6 ottobre 2016, n. 20039, conferma la possibilità per il condomino di usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso, essendo però necessario allegare e dimostrare di avere goduto del bene a titolo esclusivo.

Nel caso all’esame della Corte alcuni condomini convenivano dinanzi al Tribunale di Salerno un altro condomino, e lamentando che il quest’ultimo, in occasione della ristrutturazione di alcuni suoi immobili, aveva chiuso con opere murarie e con una porta a battenti in ferro un porticato comune a tutti i condomini e, inoltre, si era impossessato di un forno e aveva demolito un pozzo comune e dei lavatoi, chiedendo la condanna alla demolizione delle opere illegittime e al ripristino dello stato dei luoghi, oltre al risarcimento danni.

Il condomino convenuto, accusato di quanto sopra, affermava di essere proprietario dei beni in questione e di averli comunque acquisiti per usucapione.

Il Tribunale di primo grado, accogliendo la domanda, dichiarava illegittime le opere di chiusura del porticato eseguite dal convenuto, condannando quest’ultimo al loro abbattimento e al ripristino dello stato dei luoghi. La Corte di Appello di Salerno ha seguito in sostanza la decisione del giudice di primo grado.

La Corte di Cassazione, nel caso di specie, dichiarava infondato il ricorso per una mancanza intrinseca del processo, a livello soprattutto probatorio, sia in primo che in secondo grado, ma afferma un principio da non sottovalutare. La Corte di Cassazione afferma che, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza, in tema di condominio, il condomino può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso. A tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di avere goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”, senza opposizione, per il tempo utile ad usucapire (richiamando Cass. 23­7/­2010 n. 17322).

Il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune, pertanto, deve provare di averla sottratta all’uso comune per il periodo utile all’usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituito da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l’imprescrittibilità del diritto in comproprietà.

Grazie alla fattura il supercondominio si fa restituire i soldi anticipati per i lavori di conservazione

Legittimato l’amministratore di uno degli enti di gestione che agisce nei confronti dell’altro per la ripetizione delle spese inerenti la vasca delle acque reflue: attendibile la ripartizione della delibera

Con la prova delle fatture il supercondominio riesce a ottenere dal condominio la restituzione delle somme anticipate per interventi sul bene comune. Sussiste, infatti, la legittimazione dell’amministratore di uno dei condominii che agisce nei confronti dell’altro per ottenere il rimborso delle spese anticipate per la manutenzione e la conservazione della vasca di acque reflue.
Lo ha stabilito il tribunale di Roma con la sentenza 6687/17, depositata dalla quinta sezione civile. Il giudice accoglie la domanda dell’amministratore del condominio che citava in giudizio un altro condominio per sentirlo condannare al rimborso delle spese anticipate di manutenzione di una vasca di raccolta e canalizzazione di acque reflue. Il convenuto non provvedeva al rimborso e veniva citato in giudizio. Nel merito, l’istanza merita ingresso. La parte convenuta non contesta la qualità del bene comune dell’impianto di raccolta delle acque reflue, ma si limita a dedurre che la somma richiesta non è stata approvata in sede di assemblea e che le spese sostenute per la manutenzione non sono state correttamente documentate. Ma, come si evince dalla documentazione agli atti, le somme anticipate e richieste dagli altri condominii comproprietari dell’impianto sono state quantificate sulla base di una ripartizione «pienamente attendibile», regolarmente adottato con delibera. Il collegio ritiene che dall’analisi delle fatture depositate è possibile determinare in più di 3 mila euro le somme anticipate per conto del convenuto. Per gli ulteriori esborsi legali e tecnici, invece, le somme non risultano documentate a sufficienza, il che rende impossibile la restituzione. Il collegio accoglie in parte l’istanza del supercondominio.

Non paga il condominio per il furto se i ladri entrano in casa dai ponteggi montati dall’appaltatore

L’ente di gestione concorre nella responsabilità dell’impresa se si dimostra l’omissione degli obblighi di vigilanza: impossibile la condanna al ristoro solo perché è stata consentita l’installazione

Non risponde, quale custode, il condominio committente del furto subito dal conduttore a opera di ignoti che accedono all’immobile grazie alle impalcature installate dall’appaltatore per i lavori di ristrutturazione all’edificio. La responsabilità da custodia della struttura non scatta automaticamente solo perché il condominio ha consentito all’appaltatore di installare i ponteggi per gli interventi. In tali casi, si configura la responsabilità, in concorso con l’appaltatore, prevista dall’articolo 2043 Cc per non aver adempiuto agli obblighi di vigilanza.
A stabilirlo è la Cassazione con l’ordinanza 15176/17, depositata oggi dalla terza sezione civile. A citare in giudizio condominio e impresa appaltatrice è una società conduttrice di un immobile che chiedeva la condanna al risarcimento per i danni subiti dopo un furto a opera di ignoti. La domanda, rigettata dal tribunale, era confermata anche dalla Corte di appello che solo in astratto riteneva sussistente una responsabilità concorrente dell’appaltatore e del condominio. La causa, arrivata in cassazione, veniva rispedita al giudice di seconde cure che dichiarava improcedibile la domanda nei confronti dell’appaltatore, dichiarato fallito. La Corte suprema, chiamata una seconda volta a decidere, ritiene infondata la domanda di risarcimento. Nel caso di furto per «omessa adozione delle necessarie misure di sicurezza in relazione all’impalcatura di proprietà e/o installata (come nella specie) dall’appaltatore per effettuare lavori nello stabile condominiale», non si può automaticamente affermare la responsabilità da custodia (articolo 2051 Cc) della struttura in capo al condominio committente solo per aver «semplicemente consentito l’installazione, laddove si riconosca a carico dello stesso appaltatore esclusivamente una responsabilità ordinaria per colpa, ai sensi dell’articolo2043 Cc».
In tali ipotesi, la responsabilità del condominio può configurarsi «esclusivamente ai sensi dell’articolo 2043 Cc, in concorso con quella dell’appaltatore, per omissione degli obblighi di vigilanza sull’attività di quest’ultimo». Il giudice di merito, da una parte ha escluso un concreto potere di fatto in capo al condominio in relazione all’impalcatura montata dall’appaltatore, negando così «in radice il presupposto del rapporto di custodia con la struttura che avrebbe agevolato il danno, e dall’altra parte ha accertato che non era stato dedotto, ancor prima che provato, un difetto di vigilanza sull’impresa da parte del condominio». Tali questioni di fatto non possono essere nuovamente messe in discussione in sede di legittimità. Il collegio rigetta il ricorso del conduttore.

Il condominio ripara la facciata ma non risarcisce le infiltrazioni in casa dovute alla condensa

Inutile insistere per il proprietario esclusivo: la manutenzione non avrebbe evitato le macchie di umidità che hanno cause naturali, mentre l’ente di gestione ha rimediato alle vecchie fessurazioni

Non è risarcito il proprietario dell’appartamento se dalla Ctu disposta emerge che le cause delle infiltrazioni di umidità sono naturali (condensa) e anche con un intervento del condominio (tinteggiatura dei vani interessati) il problema permane. Lo ha sancito la Cassazione con l’ordinanza 15615/17, depositata il 22 giugno dalla sesta sezione civile.
Piazza Cavour dichiara inammissibile di una coppia di coniugi che citava in giudizio il condominio chiedendo i danni per le infiltrazioni di umidità che avevano raggiunto il loro appartamento. Il tribunale, in base a quanto determinato dalla Ctu, rilevava che la ragione delle infiltrazioni era da attribuire a «cause endogene (condensazione)» e solo in minima parte alle micro-fessure presenti nelle pareti esterne della facciata condominiale e, pertanto, condannava il condominio a eseguire i lavori indicati, rigettando nel resto la domanda. A differenza del primo giudice, la Corte di appello escludeva la responsabilità del condominio e le pretese risarcitorie; Piazza Cavour si allinea alla decisione di merito. La Cassazione rileva che sebbene il giudice abbia utilizzato l’espressione «concause», facendo riferimento agli esiti della Ctu, ha attribuito un significato diverso da quello preteso dai ricorrenti, vale a dire che, «piuttosto che un concorso di cause produttive di un unico danno», il giudice ha ritenuto che solo una parte dei danni lamentati fossero riconducibili alla responsabilità del condominio, mentre per altri ha reputato che «la causa è consistita in un fatto naturale» e che, dunque, si sarebbero verificati anche con la manutenzione del condominio alla facciata. La Cassazione, così come la Corte territoriale, esclude che questi ultimi danni possano essere risarciti dal condominio. Il collegio dichiara inammissibile il ricorso.

Il compenso dell’amministratore si deve adeguare in caso di lavori imprevisti

Sempre nuovi obblighi per l’amministratore di condominio. E a questo punto è meglio riflettere sulla correttezza della tesi per la quale l’emolumento dell’amministratore, quale proposto e accettato esplicitamente in occasione di ogni nomina e rinnovo dell’incarico, sia destinato a rimanere invariato qualunque cosa accada. A partire dalle recenti e pesanti incombenze verso l’agenzia delle Entrate (comunicazione delle quote di spesa fiscalmente detraibile imputate ai singoli condòmini), certamente non previste all’atto della nomina.

Occorre che tali attività abbiano adeguato compenso (ovviamente non compreso nell’emolumento stabilito quando le incombenze non erano apparse all’orizzonte), calibrato rispetto all’emolumento già fissato e all’impegno richiesto. Comunque inquadrato, il rapporto tra amministratore e condominio comporta che una parte (il condominio, per il quale parla l’assemblea) acquisisca il diritto di esigere una serie di prestazioni che devono essere espletate dall’amministratore, il quale a sua volta e simmetricamente acquisisce il diritto all’emolumento.

Un compenso extra per attività non prevista e introdotta da una nuova normativa appare del tutto naturale e non contrasta affatto con gli interessi degli stessi amministrati, che del resto pochissimo lucrerebbero lasciando interamente sulle spalle del loro rappresentante le conseguenze di una novità voluta dal legislatore.

Del resto l’ordinamento giuridico contiene una serie di norme che mirano alla salvaguardia degli atti giuridici e che consentono che l’attività negoziale voluta dai soggetti privati abbia efficacia, seppure con modeste modificazioni, quando sia l’attività che le modificazioni possano essere fatte rientrare nei canoni della legalità.

Il Tribunale di Roma (sentenza 4 luglio 2011) ha stabilito che i contratti di durata continuano ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando le condizioni ed i presupposti di cui hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio rimangono intatti. Al contrario, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, con la conseguenza che qualora la controparte non accetti alcuna proposta di modifica, il contratto potrà essere risolto per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Si possono ricordare anche gli articoli 1659, 1660, 1661 e 1664 del Codice civile, tutti in tema di appalto e tutti coerenti nel prevedere la possibilità di modificare il contenuto del contratto per effetto del configurarsi di particolari previsioni.

In ogni caso, in tema di professioni intellettuali l’articolo 2233 disciplina il compenso dovuto al professionista e prevede che se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione. Non solo: il comma XV dell’articolo 1129 del Codice civile, che parla del compenso dell’amministratore, prevede che «per quanto non disciplinato dal presente articolo si applicano le disposizioni di cui alla sezione I del capo IX del titolo III del libro IV», cioè la norme sul mandato. E queste prevedono che «il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni, con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte, e deve pagargli il compenso che gli spetta. Il mandante deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subiti a causa dell’incarico».

Il condomino può distaccarsi dall’impianto centralizzato pur in presenza di un regolamento contrattuale che lo vieta

Sentenza Cassazione 11970, sezione Seconda Civile del 12-05-2017

E’ legittima la rinuncia di un condomino all’uso dell’impianto centralizzato di riscaldamento – anche senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condomini – purché l’impianto non ne sia pregiudicato, con il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123, secondo comma, cod. civ., dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato; in tal caso, egli è tenuto solo a pagare le spese di conservazione dell’impianto stesso. Né può rilevare, in senso impediente, la disposizione eventualmente contraria contenuta nel regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo quest’ultimo un contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell’ordinamento. Deve quindi ritenersi che la condivisibile valutazione di nullità della clausola regolamentare impeditiva del distacco del singolo condomino, si estenda anche alla correlata previsione che obblighi il condomino al pagamento delle spese di gestione malgrado il distacco, dovendosi ragionevolmente sostenere che la permanenza di tale obbligazione di fatto assicuri la sopravvivenza della clausola affetta da nullità, impedendo il prodursi di quello che è il principale ed auspicato beneficio che il condomino intende trarre dalla decisione di distaccarsi dall’impianto comune.

Regolamento condominiale (destinazione d’uso appartamenti in condominio)

Nel caso in cui il regolamento condominiale preveda che un appartamento possa essere destinato esclusivamente ad abitazione, studio professionale o ufficio privato, non è possibile adibirlo ad altre destinazioni, neanche a una casa-famiglia.

Non importa che il proprietario, unico interessato, abbia già ottenuto tutte le autorizzazioni amministrative necessarie a tal fine: per il Tribunale di Catania la residenza per anziani può essere aperta solo con l’autorizzazione aggiuntiva dei condomini.

La casa-famiglia, del resto, non può essere in nessun modo paragonata a una civile abitazione: le sue caratteristiche e la necessità aggiuntiva di un ambulatorio specializzato incrementano, infatti, l’affluenza sia nell’edificio che, soprattutto, nei parcheggi.

A precisarlo è la sentenza numero 4976/2015 della terza sezione civile: l’attività del proprietario dell’appartamento deve essere necessariamente approvata dall’assemblea condominiale con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 del codice civile, ovverosia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.

Il giudice siciliano, a sostegno delle sue conclusioni, sottolinea, peraltro, che il regolamento condominiale che dispone la limitazione della destinazione dell’edificio ha natura contrattuale in quanto è stato allegato al rogito e richiamato in esso.

Esso, poi, non può essere sottoposto ad alcuna interpretazione estensiva, nonostante non ponga alcun espresso divieto di casa-famiglia.

Insomma: il condomino deve rassegnarsi. La sua iniziativa non può proseguire se gli altri condomini non sono d’accordo.