Delibera valida perché basta fissare un giorno per consentire ai condomini di vedere la contabilità

La prescrizione di carattere organizzativo e non contrattuale che obbliga l’amministratore non solo a trasmettere copia dei rendiconti ai condomini prima della riunione ma a fissare anche un giorno specifico, per consentire di visionare la contabilità e di farne a proprie spese una copia, previo appuntamento telefonico, non infrange alcuna norma del codice civile e del regolamento condominiale. Tale prescrizione non contrasta col principio di correttezza e, anzi, obbliga l’amministratore a predisporre un’organizzazione che consente ai condomini di accedere alla contabilità, ma senza che la facoltà «paralizzi il normale svolgersi dell’attività di gestione condominiale». La delibera condominiale adottata secondo questa interpretazione del regolamento non potrà essere annullata. Lo ha stabilito la Cassazione che, con l’ordinanza 12579/17, pubblicata oggi dalla sesta sezione civile, boccia il ricorso di una condomina che impugnava una delibera assembleare per ottenerne l’annullamento.
Oggetto della disposizione condominiale le copie di preventivi e dei rendiconti da trasmettere, a opera dell’amministratore, a ogni condomino almeno dieci giorni prima del giorno fissato per la riunione e la tenuta della contabilità da far visionare, nello stesso periodo, ai condomini. Secondo il tribunale che accoglieva la richiesta, la delibera andava annullata, ma la Corte di appello rilevava tuttavia che la disposizione del regolamento era stata interpretata da tutti gli amministratori che si erano succediti correttamente, i quali avevano fissato, nell’avviso di convocazione dell’assemblea, un giorno per consentire a tutti i proprietari di prendere visione della contabilità, previo appuntamento telefonico. Nel caso in esame, l’amministratore aveva assolto a tale compito, indicando nell’avviso il giorno preciso in cui era possibile consultare la documentazione, previo appuntamento telefonico, mentre la donna aveva spedito una raccomandata con cui chiedeva copia dei documenti ma che l’amministratore riceveva solo il giorno dell’assemblea. La Cassazione, in linea con la decisione di merito, boccia il ricorso della condomina. Posto che tutti gli amministratori che si erano succeduti nella gestione del condominio avevano adottato tale scelta, poiché si tratta di una prescrizione di «contenuto organizzativo del regolamento di condominio e, non quindi, di contenuto contrattuale, ha certamente rilievo a fini interpretativi (ai sensi dell’articolo 1362, comma 2, Cc), anche il comportamento posteriore al medesimo regolamento avuto dai condomini».
D’altro canto, se è vero che l’articolo 1129, comma 2, Cc, dopo la riforma introdotta con la legge 220/12, prevede «ora espressamente che l’amministratore debba comunicare il locale dove si trovano i registri condominiali, nonché i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta, possa prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia firmata», è anche costante l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «la vigilanza e il controllo, esercitati dai partecipanti essenzialmente, ma non soltanto, in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, non devono mai risolversi in un intralcio all’amministrazione, e quindi non possono porsi in contrasto con il principio della correttezza». In tal senso, l’interpretazione della Corte territoriale dell’articolo specifico del regolamento è «logicamente coerente con l’esigenza di obbligare l’amministratore a predisporre un’organizzazione che consenta ai condomini il diritto di accedere alla documentazione contabile in vista della consapevole partecipazione all’assemblea condominiale, senza però che l’esercizio di tale facoltà paralizzi il normale svolgersi dell’attività di gestione condominiale».

Diversa ripartizione rispetto alle norme delle spese per il lastrico solare solo con deroga al regolamento

I due terzi degli esborsi a carico non di tutti ma dei proprietari delle singole unità comprese nella proiezione verticale

Solo una deroga al regolamento condominiale può stabilire una diversa ripartizione delle spese per riparare o ricostruire il lastrico solare, rispetto al criterio legale. A sancirlo è la Cassazione con l’ordinanza n. 12578/17, pubblicata oggi dalla sesta sezione civile. A presentare ricorso in sede di legittimità è un condomino che impugna la sentenza della Corte di appello, censurandola sulla ripartizione delle spese per i lastrici solari. Il giudice di seconde cure accollava anche al condomino ricorrente parte degli esborsi sottolineando che i lastrici insistevano su parti di proprietà comune, come la galleria pedonale, la portineria e i piani interrati. Dunque, secondo il ragionamento del giudice del merito, non c’era alcun motivo per cui solo una parte di condomini dovesse farsi carico delle parti che ricadevano nella proprietà comune. Il ricorrente impugna la decisione e ricorre in Cassazione. Per quanto riguarda gli esborsi per riparazioni o ricostruzione dei lastrici, la Corte suprema, con recente sentenza (leggi l’approfondimento “Spese per rifare il lastrico solo a carico del proprietario dell’immobile compreso nella proiezione verticale” del 10 maggio scorso) ha stabilito che i due terzi sono a carico non di tutti i condomini, ma dei proprietari di singole unità comprese nella proiezione verticale del lastrico cui funge da copertura. Ora, l’unico modo per una differente ripartizione delle spese è una deroga al criterio legale. Dal momento che, peraltro, l’articolo 1126 Cc. non è compreso tra le «disposizioni inderogabili richiamate dall’articolo 1138 Cc., certamente il regolamento del condominio può stabilire la ripartizione delle relative spese in modo pattizio, pure ponendo le stesse a carico di tutti i condomini, ma a tal fine occorre che sia adottata una convenzione espressa di deroga al criterio legale». In questo caso, non è una deroga l’articolo 8 del regolamento condominiale cui fa riferimento la Corte d’appello, il quale, «disponendo che le spese per le parti comuni si suddividono in proporzione alla quota millesimale di proprietà di ciascuno, risulta mera traslitterazione dell’art. 1123, comma 1, Cc.». Il collegio cassa con rinvio la sentenza impugnata per un nuovo esame.

Sì ai lavori sulle parti comuni se non toccano la facciata dell’edificio né la privacy del condomino

No alla sospensione della delibera approvata col quorum necessario: manca la prova che un indiscriminato passaggio sulla terrazza di proprietà esclusiva metterebbe a rischio la vita privata

Possono essere eseguiti i lavori di collegamento tra la scala e il sovrastante locale se non comportano sostanziali modifiche sostanziali all’edificio e non compromettono la privacy del singolo condomino. Lo ha sancito il tribunale di Roma con la sentenza 17063/15, depositata dalla quinta sezione. Con la pronuncia, il giudice respinge la domanda del proprietario di un appartamento all’interno di un condominio che impugnava una delibera che stabiliva, con il quorum necessario, l’esecuzione di alcuni lavori di «collegamento tra il corpo scala e il sovrastante locale condominiale». Tali interventi, come sostenuto dal condominio, non risultavano interferire in alcun modo nella sua proprietà, anzi eliminavano di fatto «la servitù aggravante sul terrazzo dello stesso». Alla luce di tali risultanze, il tribunale decide di rigettare la richiesta avanzata dal proprietario esclusivo di sospensione della delibera impugnata per difetto «specifiche modificazioni tali da configurare il pericolo imminente di un danno irreparabile». Il ricorrente non ha dimostrato, infatti, che il lavori comportano sostanziali modifiche al «prospetto dell’edificio e/o invasione indebita nella privacy della propria famiglia attraverso un indiscriminato passaggio sulla terrazza di proprietà e non risultano integrate le responsabilità circa la violazione delle disposizioni in materia di innovazioni da parte del condominio». Quest’ultimo, inoltre, ha rilevato che il ricorrente risulta «servito dalla scala A e che il vano scala B non è di sua proprietà neppure pro quota e che i lavori di progettazione di una scala, partendo non dal terrazzo del ricorrente, ma dall’ultimo pianerottolo della scala B, consentirebbe il libero accesso dei condomini e di eventuali terzi al locale in questione». Pertanto, il giudice rigetta la domanda e dichiara cessata la materia del contendere.

Sì alla telecamera di un privato puntata sulle parti comuni anche senza l’unanimità dei condomini

Videosorveglianza lecita dopo la riforma: riservatezza violata solo se l’obiettivo inquadra porte e finestre. Addio ai vasi sul vialetto che ostacolano l’auto grazie al regolamento di natura contrattuale

Telecamere libere in condominio. È lecito il sistema di videosorveglianza installato dal singolo proprietario esclusivo senza il placet di tutti gli altri anche se l’obiettivo punta anche sulle parti comuni dell’edificio: inutile per la controparte lamentare violazioni della privacy perché il cortile del fabbricato o il relativo accesso non rientrano nei concetti di domicilio e privata dimora in quanto sono destinati a essere utilizzati da un numero indeterminato di soggetti. Ma lo stesso condomino deve rimuovere i vasi che ha piazzato sul vialetto interno se il regolamento condominiale ha natura contrattuale e vieta di occupare stabilmente le parti comuni dell’edificio con oggetti di qualsiasi natura. È quanto emerge dalla sentenza 3977/15, pubblicata dalla quinta sezione civile del tribunale di Roma.

Codice lacunoso
Niente da fare per proprietario e conduttore dell’immobile che vogliono far spegnere l’impianto video installato dal rivale per motivi di sicurezza (si tratta di un’azienda di informatica con sede in un condominio di una zona “in” della Capitale). È vero, le telecamere sono ben sei, delle quali cinque rivolte sulla facciata dell’edificio e un’altra sull’ingresso privato al piano seminterrato. Il Ctu, tuttavia, accerta che l’occhio elettronico inquadra soltanto le finestre di proprietà esclusiva del singolo condomino “blindato”. E in ogni caso, scrive il giudice, è inutile richiamare il codice privacy: nella disciplina c’è un “buco” più volte segnalato dallo stesso Garante perché gli articoli 23 e 24 del decreto legislativo 196/06 subordinano il consenso espresso quando i dati sono destinati alla comunicazione mentre nella specie l’impianto è destinato a scopi personali.

Giurisprudenza disattesa
Ancora. Alcune delle indicazioni provenienti proprio dall’authority non tengono conto della giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudice deve verificare se l’oggetto inquadrato dall’impianto di videoripresa merita la tutela che viene garantita ai luoghi di privata dimora. E l’articolo 1122 ter Cc introdotto dalla riforma del condominio finisce per ritenere, sia pure implicitamente, lecita l’installazione di telecamere puntate sulle parti comuni dell’edificio: si possono dunque configurare legittime limitazioni della privacy anche senza qualche condomino non è d’accordo. La violazione della riservatezza si configura solo se le telecamere risultano puntate su finestre e porte di abitazioni private. Va detto fra l’altro che l’originaria domanda lamenta solo la lesione della riservatezza mentre tardiva è la doglianza per la tutela di beni di proprietà esclusiva connessa alla violazione delle norme sull’uso più intenso della cosa comune dopo l’installazione delle videocamere.

Trascrizione decisiva
Nessun dubbio, invece, che il regolamento condominiale abbia natura contrattuale perché l’atto depositato presso il notaio risulta trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari. Le relative clausole sono dunque opponibili a tutti i proprietari esclusivi e dunque devono essere rimossi i vasi che ingombrano il vialetto e così riducono l’utilizzo degli spazi comuni.

Grazie alla riforma niente fondo cassa per sopperire alle morosità senza l’unanimità dei condomini

Nulla la delibera che motiva l’istituzione per «esigenze contabili» ma punta a risolvere problemi di liquidità. Serve il sì di tutti anche in caso di pignoramento. L’amministratore criticato si giustifichi

Nulla. È inefficace la delibera che senza l’unanimità dell’assemblea costituisce un fondo cassa condominiale «per esigenze contabili» ma in realtà punta a risolvere i problemi di liquidità dell’ente di gestione. E il merito è del nuovo articolo 63 disp. att. Cc secondo cui i creditori del condominio, ad esempio, non possono agire nei confronti dei proprietari esclusivi in regola con i pagamenti senza prima aver escusso senza successo quelli morosi. Lo stabilisce il tribunale di Roma con la sentenza 13857/16, pubblicata dalla quinta sezione civile.

Senza eccezioni
Accolta in parte la domanda dell’ex amministratore e di alcuni condomini suoi congiunti. Stop alla decisione dell’assemblea che dispone di creare un fondo cassa pro quota di 200 euro in due rate, il tutto anche «per il pagamento di fatture». La costituzione del “tesoretto” fra l’altro non viene delibera sulla base dei millesimi danneggiando così i proprietari di unità immobiliari più piccole. E già prima della riforma la giurisprudenza ha chiarito che una siffatta costituzione del fondo cassa equivale a chiedere un ulteriore esborso ai condomini che hanno già pagato le loro quote, chiamandoli a partecipare alle spese in misura non proporzionale al valore delle rispettive proprietà. L’unica eccezione era rappresentata dalla possibilità di approvare il fondo cassa a maggioranza nel caso di azione esecutiva sulle parti comuni ad opera di un creditore del condominio. Oggi senza l’unanimità neppure questo è possibile dopo le modifiche apportate dalla legge 220/12 all’articolo 63 disp. att. Cc.

Obbligo di trasparenza
Non viene risarcita invece l’amministratrice che sosteneva di essere stata fatta segno di attacchi ingiuriosi. Ogni condomino ha diritto di sollecitare il controllo dell’ente gestorio sull’operato del suo rappresentante, a patto di non trascendere in invettive personali. E il carattere fiduciario dell’incarico, oltre che il principio di trasparenza nella gestione, impone all’amministratore di confrontarsi con i condomini e giustificare il proprio operato. Spese di lite compensate.

Conto corrente individuale per ogni condominio

Il conto corrente individuale per ogni condominio è un obbligo di legge dal 2013, a carico dell’amministratore (e non dell’assemblea) e sorge automaticamente con il conferimento del mandato. Non solo: il conto non può essere aperto autonomamente da alcuni condòmini e a “firma congiunta”, neppure con l’avallo dell’assemblea; così ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza 8923/2017 . L’assemblea, comunque, non può in ogni caso dispensare l’amministratore dall’obbligo di aprire il conto corrente condominiale, tanto più se si considera che l’apertura del conto corrente rientra tra le attribuzioni autonomamente conferite all’amministratore sulla base dell’articolo 1130 del Codice civile in quanto atto conservativo del patrimonio comune).

Condominio: l’uso corretto del pianerottolo

Cosa è lecito e cosa non è lecito fare sul pianerottolo condominiale

l pianerottolo è una parte dell’edificio condominiale che si presume comune, salvo titolo contrario (cfr. Cass. n. 22330/2009). Ancorché non espressamente menzionato nell’elencazione di cui all’art. 1117 c.c., infatti, il pianerottolo, al pari delle scale, si trova in nesso di strumentalità con le parti di proprietà esclusiva (cfr. Cass. n. 11831/2011) e costituisce elemento necessario alla configurazione di un edificio suddiviso in piani (cfr. Cass. n. 15444/2007).

I principi generali

L’uso del pianerottolo comune è consentito a ciascun condomino purché, ai sensi dell’art. 1102 c.c., questi non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto. I rapporti condominiali, infatti, devono essere improntati al principio di solidarietà, che richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, cosicché la facoltà di ciascun condomino di trarre una più intensa utilizzazione dalla cosa comune deve risultare comunque compatibile con i diritti degli altri (cfr. Cass. n. 21256/2009). Di norma, il regolamento condominiale consente di collocare davanti all’uscio zerbini e tappeti, purché ciò non determini situazioni di pericolo per chi transiti sul pianerottolo o ne renda più incomodo il passaggio; del pari, può essere consentito il deposito della spazzatura, in attesa del conferimento nei cassonetti, purché momentaneo e non pregiudizievole della vivibilità e del decoro dell’edificio.

In applicazione ai principi generali, la giurisprudenza ha chiarito che “la collocazione sul pianerottolo […] di suppellettili determinanti l’ingombro al transito dei condomini […] comporta l’utilizzo illecito della superficie da parte del singolo condomino ex art. 1102 c.c., in danno degli altri comunisti per l’ingombro derivatone, seppur non assoluto, all’agevole e libero passaggio” (Trib. Cassino 01.06.2010).

Invero, in quanto funzionale al miglior godimento dell’immobile da parte di tutti i condomini, il pianerottolo non può essere trasformato dall’occupante l’unità abitativa che vi si affaccia in una pertinenza di fatto della medesima (cfr. Trib Modena 22.02.2007), a meno che la presunzione di comunione sia superata da titolo contrario, come nel caso in cui l’atto costitutivo del condominio abbia riservato, in tutto o in parte, il pianerottolo al dominio personale esclusivo di singoli proprietari (cfr. Cass. n. 1776/1994).

L’indagine sull’esistenza di un titolo idoneo ad escludere la condominialità del pianerottolo, in particolare, risulta rilevante ai fini della valutazione sulla legittimità dell’apertura di porte o dell’installazione di ringhiere e cancelletti da parte del proprietario dell’ultimo piano, innovazioni vietate se non effettuate nei limiti del decoro, della stabilità e della sicurezza dell’edificio condominiale, della medesima destinazione del bene e del pari uso dei condomini (cfr. App. Milano 22.07.1997). In assenza di volontà contraria dei proprietari o degli autori, inoltre, se dei manufatti di qualunque genere vengono realizzati su di un’area in comproprietà e servono all’uso comune, devono considerarsi comuni ai proprietari dei diversi piani o porzioni di piano di un edificio.

Immissioni di fumi

Con la sentenza 14467/2017 la Corte di Cassazione si è occupatale «molestie olfattive», che sono inquadrate nel reato di «getto pericoloso di cose» (articolo 674 del Codice penale) a seguito di una bizzarra vicenda condominiale dove fumi, odori e rumori persistentemente molesti sono stati oggetto di dispute giudiziarie tra due vicini.

Entrando nel merito, i proprietari di un appartamento sono stati accusati dai condòmini di aver provocato continue immissioni di fumi, odori e rumori molesti dalla loro cucina. A nulla è valsa la considerazione dei primi per la quale la causa era da ricercarsi in emissioni di odori di cucina che, per loro natura, non avrebbero integrato i requisiti per la sussistenza del reato, oltre al fatto che tra le parti vi erano stati precedentemente contrasti di vicinato.

Confermando le decisioni dei primi due gradi di giudizio, la Corte di Cassazione ha condannato gli imputati, dichiarandoli colpevoli di «getto pericoloso di cose», respingendo l’argomentazione dei ricorrenti in base alla quale tale norma non sarebbe estensibile agli odori.

La Cassazione ha quindi deciso che, come precisato più volte dalla giurisprudenza, la contravvenzione prevista dall’articolo 674 del Codice penale «è configurabile anche nel caso di molestie olfattive a prescindere dal soggetto emittente con la specificazione che quando non esiste una predeterminazione normativa dei limiti delle emissioni, si deve avere riguardo, al criterio della normale tollerabilità di cui all’articolo 844 del Codice civile». Nel caso in esame, tale tollerabilità è stata ritenuta superata; di qui la decisione della Corte di respingere il ricorso presentato dai proprietari «olfattivamente molesti».

Non è possibile la revoca di un Amministratore se le iregolarità sono “formali” e non “sostanziali”

La legge 220/2012 ha posto particolare attenzione sulla figura dell’amministratore. A prescindere dai requisiti, personali e professionali, il legislatore ha voluto tutelare il più possibile l’interesse dei condòmini a non subire pregiudizi da gestioni poco attente e non trasparenti, stabilendo anche l’obbligo di rendere noti ai condòmini i propri dati anagrafici e professionali sia in sede di accettazione dell’incarico che di rinnovo. Proprio su questo aspetto il Tribunale di Milano con ordinanza del 1° giugno 2016, aveva revocato un amministratore che, all’atto del rinnovo dell’incarico, non aveva comunicato i propri dati anagrafici e professionali e che non aveva curato la tenuta del registro di anagrafe condominiale.

Di diverso avviso è stata la Corte d’appello, che ha respinto una valutazione formalistica dell’operato dell’amministratore (sentenza 3842/2016 del 19 luglio 2016) . La Corte, infatti, nel riformare il provvedimento, da un lato ha rilevato che, per quanto dal verbale dell’assemblea – nel corso della quale l’incarico era stato rinnovato – in effetti non figurassero indicati i dati anagrafici e professionali, essendo l’amministratore in carica da svariati anni tali dati dovevano ritenersi pacificamente noti ai condòmini oltre che desumibili dalle varie comunicazioni inviate (convocazioni, lettere eccetera); dall’altro lato, con riferimento al caso specifico, la Corte ha ritenuto che l’amministratore avesse soddisfatto l’interesse del ricorrente a conoscere i dati degli altri condomini, fornendo i nominativi in suo possesso pur in mancanza di un registro di anagrafe condominiale regolarmente tenuto(decreto 19 luglio 2016). Nella sostanza la Corte ha riaffermato un principio già noto e cioè che per la revoca giudiziale dell’amministratore è necessario che la condotta contestata sia almeno potenzialmente dannosa.

L’amministratore che non osserva gli obblighi imposti dalla legge incorre sì in inadempimento, ma non necessariamente nella revoca giudiziale. Stante la natura contrattuale del rapporto di mandato, l’inadempienza dell’amministratore autorizza i condomini, oltre che a procedere alla revoca con delibera assembleare, a sospendere legittimamente il pagamento del compenso in applicazione dei principi che regolano l’esecuzione dei contratti a prestazioni corrispettive. In tal senso diverse pronunce del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano che anche più di recente (sentenza 4038/16) ha respinto la domanda di pagamento dei compensi formulata dall’ex amministratore che non aveva presentato il rendiconto, non attribuendo alcuna rilevanza alla circostanza che gli atti della gestione nel loro complesso considerati fossero in sé regolari.

Sta al condominio provare che la spesa risale a meno di un anno prima dell’acquisto dell’appartamento

È il condominio che invoca la responsabilità solidale dell’acquirente per le spese di straordinaria manutenzione a essere gravato della prova dell’inerenza dell’esborso all’anno in corso o a quello precedente al subentro del nuovo proprietario. È quanto ha stabilito la sesta sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 7395/17, pubblicata in questi giorni.
Il collegio rigetta il ricorso di un condominio contro i proprietari di un appartamento, chiamati a partecipare, per la quota di spettanza, alle spese di straordinaria manutenzione della facciata dell’edificio. I convenuti erano “freschi” acquirenti e si opponevano alla richiesta perché l’obbligo di spesa era insorto prima del loro subentro. Pertanto, secondo il tribunale che accoglieva la loro istanza, la spesa deliberata doveva rimanere estranea all’anno antecedente entro cui operava la corresponsabilità dell’acquirente, non avendo il condominio provato che l’anno di gestione coincidesse con l’anno solare. Dello stesso avviso è la Cassazione che respinge il ricorso dell’ente di gestione.
Per l’applicazione dell’articolo 63, comma 2, Cc al caso in esame, «quando sia insorto l’obbligo di partecipazione a spese condominiali per l’esecuzione di lavori di straordinaria amministrazione sulle parti comuni (in questo caso, la ristrutturazione della facciata dell’edificio condominiale), deve farsi riferimento alla data di approvazione della delibera assembleare che ha disposto l’esecuzione di tale intervento avendo la stessa delibera valore costitutivo della relativa obbligazione». Pertanto, il compratore risponde verso il venditore solo «per le spese condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui sia divenuto condomino, mentre ha diritto di rivalersi nei confronti del suo dante causa allorché sia stato chiamato dal condominio a rispondere di obbligazioni nate in epoca anteriore all’acquisto». Il ragionamento seguito dal tribunale risulta, perciò, corretto, in quanto è il condominio, «il quale invochi in giudizio la responsabilità solidale dell’acquirente di un’unità immobiliare per contributi relativi alla conservazione o al godimento delle parti comuni, ad essere gravato della prova dei fatti costitutivi del proprio credito, fra i quali è certamente compresa l’inerenza della spesa all’anno in corso o a quello precedente al subentro dell’acquirente». In base a tali motivazioni, la Suprema corte respinge il ricorso del condominio.