Condominio, nessun regolamento può vietare di tenere animali

Per il nuovo articolo 1138 del Codice civile protezione classificata tra i più generali diritti inviolabili, accertati dall’articolo 2 della Costituzione

Parliamo di animali domestici in condominio e della loro gestione. I regolamenti condominiali possono contenere norme di godimento e di utilizzo delle proprietà esclusive idonee a porre limitazioni ai diritti dei relativi proprietari. Va chiarito che il nuovo articolo 1138 del Cc dispone che il regolamento non può vietare il possesso o la semplice detenzione di animali domestici in casa o comunque all’interno del condominio. Il divieto può essere contenuto solamente in un regolamento contrattuale perché questo, essendo accettato da tutti, può contenere limitazioni ai diritti d’ognuno sulle parti di proprietà comune ed esclusiva.

È stata così sottratto in radice all’autonomia privata delle parti la possibilità di diversamente disciplinare la presenza di animali in condominio, ammettendone magari alcuni ed escludendone invece altri.

Il nuovo disposto dell’articolo 1138 del Codice civile è il frutto dell’evoluzione della considerazione del rapporto che deve esistere tra le persone e gli animali, addirittura assurto, questo, a espressione dei più generali diritti inviolabili di cui all’articolo 2 della Costituzione. Il termine animali «da compagnia», usato nella precedente versione dell’articolo 1138 Codice civile, è stato sostituito con quello di animali “domestici” dai confini più incerti, estendendo in tal modo la definizione a un più ampio genus di animale di affezione. Non è semplice per gli animali stare in condominio, ma tutto dipende dal rispetto che i loro padroni hanno delle più elementari regole che governano il vivere nella collettività condominiale.

Resta la facoltà all’assemblea disciplinare l’uso degli spazi o dei servizi comuni da parte dei proprietari di animali, nonché il comportamento che essi devono tenere all’interno del complesso condominiale: ciò sul generale presupposto che il diritto di ciascun condomino di usare e di godere a suo piacimento dei beni comuni trova limite nel pari diritto di uso e di godimento degli altri. Il lasciare libero un animale o custodirlo senza le debite cautele, oppure affidarlo a persona inesperta, costruisce un reato penalmente sanzionato (articolo 672 del Codice penale).

Quanto alla possibilità, ad esempio, di far uso dell’ascensore con gli animali, l’inibire a un condomino di usare l’ascensore con il proprio cane può trovare legittime motivazioni solo di ordine igienico sanitario, da valutarsi a seconda della concreta fattispecie che si può presentare. Ugualmente per la limitazione al numero degli animali che il condomino può detenere nella propria unità immobiliare, superato il quale appare anche legittimo l’intervento del giudice, con il conseguente allontanamento degli animali in esubero e il loro affido ad enti specializzati (Cassazione 1823/2023).

Fermo il rispetto delle elementari norme di igiene, la rilevanza anche ai fini penali della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l’incidenza sulla tranquillità pubblica in quanto l’interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete. I rumori provocati dall’abbaiare di un cane devono avere una tale diffusione da costituire l’evento un disturbo idoneo ad essere sentito da un numero indeterminato di persone: se invece ad infastidirsi è un solo condomino non c’è né reato e né illecito civile. Non vanno sottovalutati i rischi in cui incorre il custode dell’animale, qualora questo diventi fonte di immissioni di rumori o di odori tali da cagionare, per la loro frequenza e intensità, malessere e insofferenza anche a persone di normale sopportazione. Anche il lasciare solo in casa il cane per l’intera giornata può configurare il reato di abbandono di animale (articolo 672 Codice penale).

La videosorveglianza in condominio

Sommario:

  • La delibera assembleare;
  • Le telecamere;
  • Accesso alle informazioni;
  • La videosorveglianza in presenza del dipendente;
  • La fase della progettazione.

La delibera assembleare

Con la legge n. 220/2012 (riforma del condominio), è stato introdotto l’art. 1122 ter c.c., secondo cui “le deliberazioni concernenti l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall’assemblea con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 c.c.”, ossia la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.

Premesso che, secondo il GDPR artt. 5 e 6,  l’autorizzazione al trattamento dei dati o è concessa direttamente dalla legge ovvero vi è il consenso dell’interessato, la fonte normativa di cui all’art. 1122 ter c.c. stabilisce che per poter trattare i dati ( e per dati occorre intendere anche le immagini in quanto loro mezzo è possibile identificare inequivocabilmente una singola persona)) a mezzo l’installazione di un impianto di sorveglianza occorre una delibera assembleare assunta con la maggioranza di cui all’art. 1136 II comma c.c. Quest’ultima  (la delibera) funge quindi da fonte della legittimazione all’installazione concretizzando il consenso specificatamente richiesto.  In mancanza, il trattamento deve ritenersi illecito. (E’ quanto ha deciso il Garante con il provvedimento del 16 dicembre 2023 ritenendo illecita l’installazione di telecamere in un condominio in mancanza di autorizzazione assembleare e conseguentemente ha qualificato come titolare l’amministratore e come tale gli ha irrogato la sanzione di € 1.000,00).

I requisiti della delibera

L’analisi di quale sia la corretta procedura per l’installazione delle telecamere in un condominio non può non tenere contro oltre che del dato normativo del codice civile e del cd. GDPR (D.Lgs. n. 679/2016) anche dell’analisi dei casi fatta dalla giurisprudenza e delle elaborazioni e provvedimenti del Garante.

Ciò posto, la prima considerazione a farsi è quella relative alle esigenze ed ai diritti che in tale fattispecie debbono porsi in correlazione:

  • da un lato la tutela del patrimonio, dei beni e della proprietà condominiale, nonché la tutela dell’integrità fisica delle persone e,
  • dall’altro, al diritto della riservatezza, alla difesa della vita privata (vedi articolo 8 Convenzione europea diritti dell’uomo) ed alla protezione dei dati personali.

ll dibattito si è sempre sviluppato, pertanto lungo la direttiva delle condizioni di liceità dell’installazione di tali impianti, in relazione alle finalità di protezione della compagine condominiale, nel rispetto del diritto alla riservatezza.

A dirla con la Suprema Corte (Cass. Ord. n. 14969 del 11 maggio 2022) l’installazione di questi impianti “è ammissibile solo in relazione all’esigenza di preservare la sicurezza di persona e la tutela di beni da concrete situazioni di pericolo, di regola costituite da illeciti già verificatisi.” …….”né deve avere una funzione meramente sostitutiva rispetto ad altre misure di norma utilizzate per preservare la sicurezza delle persone e dei beni con valutazione da eseguire in base agli elementi specifici di ciascuna situazione.

In virtù di detti presupposti la delibera in questione è da definirsi a contenuto vincolato. Nel senso che essa dovrà necessariamente prevedere:

  • L’autorizzazione all’installazione delle telecamere per il controllo dei soli spazi comuni;
  • Modalità e finalità del trattamento;

In pratica nella stessa delibera di autorizzazione occorrerà prendere posizione indicando preliminarmente le finalità del trattamento (che possono riassumersi nella tutela del patrimonio comune e anche della singola proprietà da atti vandalici e da furti oltre che della tutela dei condomini da atti lesivi della persona fisica e di rapina, ecc.), ma occorrerà anche dare atto concretamente di precedenti specifici che giustificano il ricorso alla detta installazione di telecamere.

  • Tempi di conservazione delle immagini;

Usualmente tra le 24 e le 48 ore salvo necessità specifiche da indicarsi e giammai in maniera superiore ai 7 giorni. Oltre i quali è necessaria l’autorizzazione del Garante.

  • Individuazione dei soggetti autorizzati alla loro visione.

La detta delibera dovrà altresì indicare il responsabile dei dati. Usualmente l’amministratore cui dovrà essere però conferito apposito incarico. In maniera da renderlo “responsabile”.

Anche nel caso di nomina di una ditta esterna specializzata nel trattamento dei dati come responsabile occorrerà che l’assemblea autorizzi espressamente l’amministratore a detta nomina del responsabile esterno ai sensi e conformemente a quanto disposto dall’art. 28 del GDPR dovrà essere indicato un soggetto che presenti garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del Regolamento e garantisca la tutela dei diritti degli interessati.

Le telecamere

Tutto ciò non sarà sufficiente, però, qualora il condominio (in viste di datore di lavoro) sia parte di un rapporto di lavoro subordinato con un dipendente (portiere, custode, giardiniere, etc.). In questi casi, infatti, occorrerà tener conto del particolare status di contraente debole, caratteristico del dipendente. A questo proposito, è opportuno, preliminarmente, precisare che, in presenza di un dipendente del condominio, prima di procedere alla deliberata installazione, prima di procedere alla deliberata installazione occorrerà presentare anche l’istanza per l’autorizzazione dell’installazione dell’impianto all’ispettorato del lavoro territorialmente competente, ai sensi dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (producendo una relazione ove saranno indicati i motivi di sicurezza che hanno indotto alla richiesta di installazione dell’impianto).

Tra l’altro, lo stesso Statuto dei lavoratori, prevede che “il mancato rispetto della norma in materia di videosorveglianza, è punito con ammenda da euro 154 a euro 1540, o l’arresto da 15 gg ad un anno”.

Sul punto, è intervenuta la Corte di Cassazione precisando, con sentenza n. 38882/2018, che non è sufficiente il consenso prestato dal lavoratore in condominio, essendo necessaria l’autorizzazione di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Sul punto si rinvia ad una più ampia disamina che di seguito si pubblica.

Ad ogni modo, una volta installato correttamente l’impianto di videosorveglianza, sarà necessario rispettare alcune regole fondamentali, anche alla luce della normativa Europea in materia di protezione dei dati.

La prima regola da seguire riguarda l’obbligo di segnalare la presenza dell’impianto. E’ necessario, infatti, segnalare la presenza di telecamere con appositi cartelli ed è necessario farlo subito prima dell’accesso all’area ripresa (quindi apporre il cartello sul cancello o portone di ingresso al fabbricato). Trattasi della cd. informativa di primo livello. Poi sul cartello si darà atto che la più estesa informativa (di secondo livello) contenente anche la specifica dei diritti dell’interessato può essere visionata presso lo studio dell’amministratore o richiesta direttamente in copia allo stesso.

Secondo le linee guida del Garante per la protezione dei dati personali, nonché del Comitato Europeo per la protezione dei dati in merito al trattamento dei dati personali effettuato tramite dispositivi video, questo adempimento equivale ad informare, ai sensi degli artt. 13 e 14 del GDPR ed in quanto tale il cartello esposto dovrà indicare una serie di elementi volti a fornire informazioni precise a chi accede all’edificio ed in particolare:

  • nominativo e dati di contatto del Responsabile del trattamento dei dati;
  • finalità del trattamento dei dati;
  • periodo di conservazione dei dati;
  • indicazione dei diritti degli interessati anche con rinvio ad un’informazione di secondo livello.

La seconda regola riguarda la corretta impostazione dell’impianto ed in particolare il suo angolo di campo. Infatti l’impianto dovrà inquadrare esclusivamente le aree comuni dell’edificio (accessi all’edificio, garage, giardini, pianerottoli, ecc.) e le aree pertinenti l’edificio stesso in cui è installato. In questo senso, laddove vi sia una ditta esterna che si è occupata dell’installazione, dovrà assicurare che sia rispettato questo adempimento per evitare la ripresa dei luoghi circostanti e di particolari che non sono rilevanti (strade pubbliche, edifici circostanti, esercizi commerciali, ecc.) in modo da evitare che il titolare del trattamento possa incorrere in sanzioni.

Discorso non diverso vale anche per la videosorveglianza privata, che (anche in assenza di specifico cartello-informativa) deve comunque avere un angolo visuale diretto a non oltrepassare la linea di confine con l’abitazione altrui (configurandosi altrimenti il reato di intrusione illecita nella vita privata altrui, sanzionabile ai sensi dell’art. 615 c.p.).

Sul punto, la Corte di Cassazione già nel 2006 precisò che l’impianto di videosorveglianza installato ad uso esclusivo del singolo condomino all’ interno della sua proprietà, ma con angolo visuale diretto alle aree condominiali antistanti all’ingresso della proprietà privata, non integrerà il reato di cui all’art. 615 c.p. essendo tali aree destinate all’utilizzo da parte di un numero indifferenziato di persone, dovendosi in ogni caso rispettare i limiti previsti in materia di impianti di videosorveglianza condominiali.

La terza regola riguarda, invece, i tempi di conservazione delle immagini: in questo caso, in assenza di riferimenti normativi, il Garante per la protezione dei dati personali ha precisato che le immagini non potranno essere conversate più a lungo di quanto necessario per le finalità per le quali sono acquisite (in funzione del principio di minimizzazione dei dati) ed ha indicato un termine limite di 24/48 ore. Chiaramente questo riferimento temporale vale per quegli impianti che effettuano registrazioni e che nella maggior parte dei casi presentano al loro interno una scatola nera per la cancellazione automatica delle stesse al termine indicato; diversamente, nel caso di impianti che effettuano solo monitoraggio in tempo reale, non sarà necessaria alcuna indicazione del relativo periodo temporale.

Qualora, nel caso di conclamate esigenze di sicurezza, il titolare del trattamento volesse prolungare i tempi di conservazione delle immagini, in alcun caso potrà farlo arbitrariamente, essendo in tal senso necessario inoltrare un’istanza al garante per la protezione dei dati agli indirizzi: mail: protocollo@garanteprotezionedeidatipersonali.it pec: protocollo@pec.garanteprotezionedeidatipersonali.it., indicando oltre ai motivi specifici e i rischi reali che giustifichino richiesta, anche una documentazione che possa descrivere il luogo in esame, allegando se necessario una piantina planimetrica e i relativi supporti fotografici. Ricevuta la richiesta, il Garante procederà ad una verifica preliminare ed entro un termine di 180 giorni, a seconda delle valutazioni effettuate, concederà o negherà il prolungamento dei tempi di conservazione delle immagini.

Accesso alle informazioni

Infine, una domanda: qualora il singolo condomino voglia accedere alle registrazioni, cosa dovrà fare?

E’ sicuramente diritto del condomino chiedere di visionare le registrazioni, ma in tal senso sarà necessario rispettare alcune condizioni.

  • sussistenza di una circostanza grave (furto, rapina, danneggiamento, etc.) che riguardi la proprietà privata o le parti comuni dell’edificio;
  • presentazione di specifica denuncia alle autorità competenti;
  • formulazione di richiesta scritta rivolta all’amministrazione (a mezzo raccomandata a/r o pec), allegando copia della relativa denuncia.

Nella richiesta, oltre alle generalità dell’interessato e ad una breve descrizione dell’accaduto, sarà necessario indicare almeno orientativamente il giorno e la fascia oraria in cui è avvenuto il fatto. Ciò in quanto, oltre ad agevolare le indagini per le autorità competenti, tale indicazione consentirà di rispettare in pieno il principio di minimizzazione dei dati, per cui si accederà soltanto al frame relativo al giorno e ora indicati, con oscuramento delle restanti immagini.

La videosorveglianza in presenza del dipendente

Art. 4 dello Statuto dei lavoratori Legge n. 300 del 1970 – Titolo I – Della libertà e dignità del lavoratore

  1. Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.
  2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.
  3. Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.

Obblighi normativi e esclusioni

L’obbligo normativo sorge nel momento in cui il datore di lavoro intende installare un impianto audiovisivo o delle telecamere ed abbia dei dipendenti. Il comma secondo del novellato articolo quattro della legge numero 300 del 1970 esclude, invece, l’applicabilità del comma uno: quindi della necessità di autorizzazione ministeriale o accordo sindacale agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

Vi è poi la circolare numero 2 del 7 novembre 2016 dell’Istituto nazionale del lavoro la quale ha precisato che possono considerarsi strumenti di lavoro gli apparecchi, i dispositivi e gli apparati di congegni che costituiscono un mezzo indispensabile al lavoratore per adempiere la prestazione lavorativa in contratto e che per tale finalità siano stati posti in uso o messi a sua disposizione.

Analogamente, il Garante della privacy con verifica preliminare del 16 Marzo 2017 documento web 8163433, in linea con l’ispettorato, ha confermato che gli strumenti di lavoro sono tutti quei dispositivi utilizzati in via primaria ed essenziale per l’esecuzione dell’attività lavorativa ovvero direttamente preordinate all’esecuzione della prestazione lavorativa.

Per ciò che riguarda il concetto di personale dipendente si deve ritenere che la norma fa riferimento ad attività lavorativa subordinata e che pertanto non troverà applicazione in tutti gli altri casi.

La procedura

L’istanza per il rilascio dell’autorizzazione può essere presentata compilando il modulo predisposto dall’ispettorato del lavoro che è reperibile sul suo sito Internet alla voce “modulistica”.

Va presentata in marca da bollo da euro 16 con allegato un’ulteriore marca da bollo da euro 16 per il provvedimento di autorizzazione. Il modello debitamente compilato e firmato può essere inoltrato all’ufficio anche tramite pec. In questo caso il bollo sarà assolto per via telematica. A tal fine nel sito istituzionale è predisposto il modulo della dichiarazione sostitutiva della marca da bollo. Il datore di lavoro provvede ad inserire nella domanda i numeri identificativi delle marche da bollo utilizzate nonché ad annullare le stesse conservando gli originali.

L’istanza deve necessariamente contenere:

  • i dati identificativi della ditta e del rappresentante legale con l’indicazione di quanti dipendenti vi sono nonchè la descrizione puntuale dell’attività aziendale;
  • specifica indicazione delle esigenze che motivano la richiesta con la descrizione delle finalità che si intendono perseguire;
  • ampiezza aziendale e indicazione della presenza o meno delle rappresentanze sindacali aziendali o delle rappresentanze sindacali unitarie nell’unità locale.

La dichiarazione è sottoscritta dal legale rappresentante che si impegna:

  1. ad installare l’impianto in modo da non ledere la privacy del dipendente e dunque a non posizionare le telecamere in luoghi riservati bagni o spogliatoi né riprendere il posto di lavoro (in condominio si pensi alla guardiola del portiere);
  2. a che le immagini siano custodite in modo da assicurarne la riservatezza al fine di escludere l’acquisizione delle stesse da parte di soggetti non autorizzati o che vengano diffuse all’esterno;
  3. è inoltre essenziale che venga data adeguata informazione ai dipendenti e venga data adeguata pubblicità nei locali aziendali anche ai soggetti terzi di trovarsi in area sottoposta a videosorveglianza.

All’istanza così compilata va allegata:

  • una relazione illustrativa delle esigenze di carattere organizzativo, produttivo, di sicurezza o di tutela del patrimonio poste a fondamento dell’istanza;
  • Una relazione tecnica relativa alla specificazione delle modalità di funzionamento dell’impianto allegando schede tecniche dell’impianto monitor telecamere e del DVR,  non è più richiesta invece la planimetria dell’azienda con l’esatto collocamento delle telecamere nè è più necessario indicarne il numero.

Qualora la distanza presentata non sia completa l’ufficio procede a richiedere formalmente la documentazione al datore di lavoro dando un termine per l’integrazione. Decorso inutilmente il termine, la richiesta sarà rigettata. L’ufficio segue una consolidata prassi operativa che può prevedere anche un sopralluogo per verificare lo stato dei luoghi al fine di valutare la sussistenza delle ragioni tecniche produttive che possano giustificare l’installazione dell’impianto e verificare che le telecamere non riprendano postazioni fisse di lavoro.

Le sanzioni e il ravvedimento

Nel caso di violazione dell’articolo quattro dello statuto dei lavoratori l’ufficio ordina la cessazione della condotta criminosa ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo numero 758 del 1994 e contemporaneamente dà notizia di reato alla Procura della Repubblica a carico del legale rappresentante dell’azienda.

All’interno del verbale di prescrizione il funzionario deve indicare un termine congruo entro il quale l’impianto va disinstallato. Il datore di lavoro è ammesso al pagamento di una sanzione minima qualora entro il termine concesso per la disinstallazione ottenga la prevista autorizzazione dall’ufficio competente o raggiunga l’accordo sindacale. In tale ipotesi vengono meno i presupposti dell’illecito per cui l’ispettore lo ammette al pagamento in sede amministrativa di una somma pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa (euro 387,00)  entro 30 giorni ai sensi dell’articolo 21 del decreto legislativo n. 758 del 1994.  Il pagamento della sanzione amministrativa comporta l’estinzione del reato e di conseguenza la comunicazione alla Procura della Repubblica che il soggetto ha ottemperato alla prescrizione con conseguente richiesta di archiviazione del procedimento penale.

La fase della progettazione

Con l’espressione inglese Data Protection by default and by design si fa riferimento alla necessità di configurare il trattamento prevedendo fin dall’inizio le garanzie indispensabili al fine di soddisfare i requisiti del regolamento e tutelare i diritti degli interessati tenendo conto del contesto complessivo in cui il trattamento si colloca e dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati.

Tutto questo deve avvenire prima di procedere al trattamento dei dati veri e propri secondo quanto afferma l’articolo 25 del Regolamento.  Si richiede pertanto un’analisi preventiva e un impegno applicativo da parte dei titolari che devono sostanziarsi in una serie di attività specifiche e dimostrabili. In altri termini secondo l’articolo il Titolare del trattamento deve mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate sia al momento della progettazione sia nella fase di trattamento vera e propria della rilevazione o registrazione delle immagini. Ciò affinché il trattamento dei dati sia conforme ai principi basi della disciplina in tema di protezione dei dati. Ciò significa che caso per caso il titolare anche con l’aiuto di un esperto dovrà valutare la necessità o meno di predisporre la cd. Valutazione d’impatto DPIA.

Infatti, l’articolo 5 paragrafo uno lettera F del regolamento impone il principio di integrità e riservatezza ai sensi del quale i dati personali sono trattati in maniera da garantire loro un’adeguata sicurezza a mezzo la protezione mediante misure tecniche organizzative adeguate onde evitare:

  1. trattamenti non autorizzati o illeciti;
  2. la perdita o la distruzione;
  3. il danno accidentale.

Nel valutare l’adeguato livello di sicurezza si tiene conto in special modo dei rischi presentati dal trattamento che derivano in particolare dalla distruzione, dalla perdita, dalla modifica, dalla divulgazione non autorizzata, dall’accesso in modo accidentale o illegale a dati personali trasmessi conservati o comunque trattati.

Rispetto al citato quadro giuridico è necessario porre in essere accorgimenti necessari a consentire la continuità su base permanente e il ripristino della disponibilità dei dati personali eventualmente sottratti.

Le tecniche in grado di assicurare l’ identificabilità degli interessati ai quali i dati personali trattati si riferiscono per limitare il rischio della loro consultazione da parte di soggetti non autorizzati come la pseudonomizzazione o la cifratura dei dati,  procedure idonee ad attestare,  verificare e valutare regolarmente l’efficacia delle misure tecniche organizzative al fine di garantire la sicurezza del trattamento.

Condominio: Chi paga i danni causati da un auto incendiata?

Nell’eventualità di danni a un condominio per un’auto incendiata, chi paga le spese di risarcimento?

Dipende da alcuni fattori, vediamo quali

Che fare in caso di danni al condominio causati da un’auto incendiata? Chi è tenuto a pagare le spese? Una situazione di non facile lettura perché entrano in ballo la copertura RC auto, le responsabilità del proprietario della vettura e la nozione di circolazione all’interno di aree pubbliche o private, per cui è meglio fare un po’ di chiarezza.

INCENDIO AUTO DI NATURA DOLOSA O SPONTANEA

Partendo innanzitutto dall’analizzare le cause dell’incendio dell’auto. Se le fiamme sono di natura dolosa, le responsabilità ricadono sull’autore del gesto e tocca a lui risarcire i danni, ammesso che venga individuato. In caso contrario il condominio è tutelato dall’assicurazione contro gli incendi, sperando che ne abbia una (come dovrebbe essere da prassi). Se invece le fiamme si sono propagate spontaneamente per un corto circuito o motivi simili, entra in ballo il proprietario dell’auto come del resto dispone l’art. 2054 c.c., secondo cui “il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”.

INCENDIO AUTO E DANNI AL CONDOMINIO: SOSTA SU LUOGO PUBBLICO O PRIVATO

Tuttavia occorre fare subito una distinzione tra auto in sosta in un’area pubblica, come potrebbe essere un marciapiede attiguo al condominio, e auto in sosta in un’area privata, ad esempio il cortile condominiale. Nel primo caso, poiché sono considerati in circolazione anche i veicoli in sosta su strade di uso pubblico o su aree a queste equiparate, i danni sono coperti dalla RCA del proprietario dell’auto (salvo, come abbiamo visto, che l’incendio sia scaturito per fatto doloso di un terzo o per caso fortuito, che non sono eventi derivanti dalla circolazione stradale). Di conseguenza nell’altro caso, ossia quando quando l’incendio spontaneo si verifica all’interno di un cortile condominiale privato danneggiando la facciata dell’edificio, si dovrebbe escludere l’operatività della copertura RC auto, mancando il presupposto della circolazione in area pubblica, riconducendo quindi la responsabilità interamente a carico del proprietario dell’auto.

LA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA SUL CONCETTO DI CIRCOLAZIONE STRADALE

Abbiamo opportunamente usato il condizionale perché di recente il concetto di circolazione e la sua estensibilità alle aree private è stato messo in discussione da un paio di decisioni riguardanti la normativa comunitaria in materia di RC auto. In particolare in una delle due, e all’epoca ne abbiamo parlato anche noi di SicurAUTO.it, l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia UE, riferendosi a una causa avente come oggetto l’incendio di una vettura in sosta all’interno di un garage privato che aveva cagionato danni all’abitazione di cui l’autorimessa faceva parte, ha precisato che in base alla disciplina europea il concetto di circolazione comprende qualsiasi uso del veicolo in linea con la funzione abituale dello stesso, a prescindere dal luogo in cui si trova. E quindi devono considerarsi coperte dall’assicurazione obbligatoria RC auto anche quelle situazioni in cui un veicolo staziona in un’area privata adibita a parcheggio.

AUTO INCENDIATA: CHI PAGA I DANNI AL CONDOMINIO?

Alla luce di ciò, nell’ipotesi di danni al condominio causati da un’auto incendiata, chi paga è l’assicurazione RCA del veicolo. E che sia parcheggiata su suolo pubblico o privato non fa differenza. Con esclusione, ovviamente, degli incendi avvenuti per fatto doloso di un terzo o per caso fortuito.

Il condomino irregolarmente convocato via mail può sempre impugnare la delibera?

A tale proposito merita di essere ricordato che prima della riforma non era previsto alcun obbligo di forma, la comunicazione poteva avvenire anche in forma orale, proprio in base la principio di libertà delle forme, salvo che il regolamento non prescrivesse particolari forme di notifica dell’avviso.

Inoltre, l’eventuale previsione regolamentare in ordine alle modalità di convocazione dell’assemblea, poteva essere modificata anche per facta concludentia, quindi per prassi costante seguita dagli amministratori di condominio. Dopo la riforma del condominio, l’avviso di convocazione contenente specifica indicazione dell’ordine del giorno, deve essere comunicato almeno 5 giorni prima della data fissata per l’adunanza in prima convocazione, a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, indicando ora e luogo della riunione (art. 66 disp. att. c.c., comma 3). Tale modalità non cambia neppure se i condomini ricorrono all’assemblea in streaming: in tal caso però l’avviso deve contenere lo specifico strumento telematico che dovrà essere utilizzato, ossia la piattaforma elettronica sulla quale si terrà la riunione – riportando anche il link per accedervi – nonchè l’ora e la data della stessa.

La convocazione via mail

Una recente decisione ha affermato che l’articolo 66, comma 3, delle disposizioni di attuazione del codice civile non prevede l’e-mail semplice come mezzo di convocazione dei condomini, ma che ciò non implica che l’uso della stessa sia vietato, sempreché la ricezione della comunicazione sia garantita e, soprattutto – in caso di contestazione – possa essere provata (Trib. Tivoli, 5 aprile 2022, n. 493). Il problema nasce se in giudizio il condomino convocato afferma di non aver ricevuto alcuna rituale convocazione dell’assemblea, nelle forme di legge e il condominio, gravato del relativo onere, non riesce a fornire alcuna valida prova del contrario.

Si ricorda che l’elenco delle modalità di trasmissione indicate nell’art. 66 disp. att. c.c. è da considerarsi tassativo poiché l’avviso di lettura dell’e-mail, a differenza della PEC, non ha alcun valore legale (Trib. Genova 23 ottobre 2014 n. 3350).

Lungo questa linea di pensiero è stata dichiarata irregolare la convocazione dell’assemblea trasmessa ad un indirizzo di e-mail ordinaria e non all’indirizzo PEC espressamente indicato dal condomino all’amministratore per l’invio delle comunicazioni (Trib. Sulmona 3 dicembre 2020, n. 243). Altra decisione ha affermato che è annullabile la delibera dell’assemblea se i condomini sono stati convocati con una mail ordinaria: lo strumento, infatti, non conferisce certezza della comunicazione perché a differenza della PEC non dimostra l’effettivo recapito del messaggio al destinatario (Trib. Roma, 23 luglio 2021).Secondo una decisione di merito però qualora sia stato lo stesso condomino a chiedere di essere informato circa la convocazione dell’assemblea condominiale a mezzo di mail ordinaria, poi non può appellarsi al fatto che l’avviso non gli sia stato inviato via PEC (App. Brescia 3 gennaio 2019 n. 4).

Convocazione invalida via mail

A parte casi particolari, la convocazione via mail dell’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale, in quanto vizio procedimentale, comporta l’annullabilità della delibera condominiale. Si tratta di vizio formale inerente il procedimento di formazione della volontà dell’ente di gestione, costituente valido motivo di impugnazione, a prescindere da ogni ulteriore interesse del condomino che contesta la delibera. La conseguenza della qualificazione del vizio in termini di “annullabilità” comporta che, nel caso di decorrenza del termine di 30 giorni previsto dall’art. 1137 c.c. senza che sia proposta impugnazione, la delibera (in origine irregolare) non possa più essere contestata giudizialmente.

Il condomino irregolarmente convocato via mail può sempre impugnare la delibera?

L’irregolarità costituita dalla convocazione dell’assemblea a mezzo di semplice e-mail può essere eccepita, ai sensi dell’art. 66 disp. att. c.c., esclusivamente dai dissenzienti e/o dagli assenti non regolarmente convocati.

Attenzione però che l’annullabilità della delibera assembleare per mancata comunicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea non può essere fatta valere allorché il condomino, nei cui confronti la comunicazione è stata omessa, sia presente in assemblea, dovendosi presumere che lo stesso ne abbia avuto comunque notizia, rimanendo l’eventuale irregolarità della sua convocazione conseguentemente sanata. Allo stesso modo l’illegittima convocazione per mezzo di semplice e-mail viene sanata dalla pacifica presenza in assemblea e dalla partecipazione al voto del condomino che non contesta la detta irregolarità (Trib. Roma 12 maggio 2023 n. 7545).

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Condominio: nulla la delibera sui lavori straordinari senza costituzione del fondo speciale

L’allestimento anticipato del fondo speciale è un’ulteriore condizione di validità della delibera di approvazione dei lavori di manutenzione straordinaria (Cassazione n. 9388/2023)

Il proprietario di un appartamento sito in Condominio riceve un decreto ingiuntivo relativo al pagamento delle spese di manutenzione straordinaria. L’uomo si oppone al provvedimento monitorio ed eccepisce la nullità della delibera. Infatti, la decisione assembleare riguarda una spesa cospicua (circa 487 mila euro) ma non prevede la costituzione del fondo speciale, indicata come obbligatoria dalla legge.

È valida la delibera sui lavori di manutenzione straordinaria che non preveda la costituzione del fondo speciale?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 5 aprile 2023, n. 9388, risponde negativamente. Infatti, il preventivo allestimento del fondo speciale è obbligatorio e costituisce una condizione di validità della delibera di approvazione delle opere.
La norma (ex art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.) tutela l’interesse collettivo al corretto funzionamento della gestione del Condominio e l’interesse del singolo condomino ad evitare il rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi.

Gli ermellini ricordano, altresì, che nell’opposizione a decreto ingiuntivo per la riscossione di contributi condominiali il giudice può sindacare sia la nullità (dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio) della delibera posta a fondamento dell’ingiunzione, sia l’annullabilità della stessa (a patto che venga dedotta con domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione (ex art. 1137 c.c.). La nullità della delibera impugnata può essere rilevata d’ufficio o esaminata su eccezione di parte anche dal giudice d’appello, come avvenuto nella fattispecie oggetto di scrutinio.

La vicenda

Il proprietario di un immobile sito in uno stabile condominiale riceve un decreto ingiuntivo per il pagamento di circa 2.600 euro a titolo di spese per la manutenzione straordinaria delle facciate e dei balconi, come deliberate dall’assemblea condominiale nel settembre del 2017. L’uomo propone opposizione e, per quanto qui di interesse, il giudice accoglie l’eccezione di nullità della delibera assembleare sollevata dal debitore-opponente. La delibera in questione, infatti, ha approvato i lavori straordinari per circa 490 mila euro ma non ha previsto la costituzione del fondo speciale (ex art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.). Secondo il giudice del gravame, tale mancanza comporta la declaratoria di nullità della decisione assembleare.

Si giunge così in Cassazione.

Premessa: l’obbligatorietà del fondo speciale

L’art. 1135 c. 1 n. 4 c.c. dispone quanto segue: “l’assemblea dei condomini provvede […] alle opere di manutenzione straordinaria e alle innovazioni, costituendo obbligatoriamente un fondo speciale”.

Il suddetto fondo può avere:

  • un importo pari all’ammontare dei lavori;
  • oppure, può essere costituito in relazione ai singoli pagamenti dovuti, se i lavori devono essere eseguiti in base a un contratto che ne preveda il pagamento graduale in funzione del loro progressivo stato di avanzamento.

L’art. 1135 c. 1 n. 4 è stato modificato dalla legge di riforma del condominio (legge 220/2012). Il testo originario prevedeva la costituzione del fondo come facoltativa, infatti, l’espressione impiegata dal legislatore era “se occorre”. La modifica ha introdotto l’avverbio “obbligatoriamente” prevedendo, dunque, la necessità di allestire previamente il fondo. Successivamente, è intervenuta un’altra modifica ad opera del d.l. 145/2013 grazie alla quale il fondo speciale non deve necessariamente essere di importo equipollente al costo delle opere ma, se il contratto prevede un pagamento rateale, è possibile l’allestimento del fondo in relazione ai singoli pagamenti dovuti.

La delibera su spese per lavori di manutenzione straordinaria

Il Condominio, con la delibera del 2017, ha affidato i lavori per il rifacimento delle facciate ad una ditta ed ha conferito all’amministratore l’incarico di ottenere un finanziamento bancario, al fine di coprire la metà dell’esborso. La delibera ha previsto il frazionamento della riscossione delle spese in tre rate iniziali da 18 mila euro ciascuna e successive 57 rate da circa 7 mila euro l’una. Successivamente, la rateazione è stata confermata con la delibera del gennaio del 2018, in cui l’assemblea ha preso atto del fatto che l’istituto di credito interpellato ha rifiutato il finanziamento.

Secondo le difese svolte dal Condominio, il giudice di merito ha omesso di considerare che la delibera aveva disposto il pagamento rateale e che l’appaltatore aveva acconsentito. Inoltre, il ricorrente sostiene che la norma sul fondo speciale non vada interpretata restrittivamente come, invece, ha fatto il giudice di merito

La Suprema Corte considera infondate le doglianze: la sentenza gravata non ha omesso la disamina dei fatti né ha male interpretato l’art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.

Prima di analizzare il decisum, ricordiamo che la delibera assembleare che approvi un intervento di ristrutturazione sulle parti comuni (come la facciata) reca un duplice oggetto:

  1. l’approvazione della spesa di manutenzione straordinaria, consistente nel fatto che l’assemblea riconosca la necessità di un intervento nella misura deliberata e avente valore costitutivo dell’obbligazione di contribuzione alle spese (Cass. 25839/2019);
  2. la ripartizione della spesa tra i condomini, che indica la misura del contributo dovuto da ciascuno in ragione del valore della proprietà e ha valore dichiarativo, «in quanto serve solo ad esprimere in precisi termini aritmetici un già preesistente rapporto di valore, secondo i criteri di calcolo stabiliti dalla legge» (Cass. 15696/2020).

Per completezza espositiva, si ricorda che la ripartizione della spesa (sub 2) rappresenta la condizione indispensabile ai fini della concessione dell’esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo per la riscossione dei contributi (ex art. 63 c. 1 disp. att. c.c.). Pertanto, nel caso in cui non sia stata approvata la ripartizione, l’amministratore, pur rimanendo dotato di legittimazione all’azione per il recupero degli oneri condominiali promossa nei confronti del condomino moroso (ex art. 1130 n. 2 c.c.), può:

 

  • agire in sede di ordinario processo di cognizione,
  • oppure ottenere un decreto ingiuntivo senza esecuzione provvisoria.

Torniamo, ora, alla decisione.

Opposizione a decreto ingiuntivo: il giudice può sindacare la validità della delibera

Nell’opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento delle spese condominiali, il creditore ingiungente – ossia il Condominio – soddisfa l’onere probatorio producendo il verbale dell’assemblea con cui le spese oggetto dell’ingiunzione sono state deliberate nonché i relativi documenti (Cass. 15696/2020; Cass. 7569/1994). Il giudice, pronunciando nel merito, emette una sentenza favorevole (o meno) a seconda che l’amministratore abbia dimostrato l’esistenza del credito, la sua esigibilità e la titolarità dello stesso in capo al Condominio. La delibera assembleare di approvazione della spesa:

  • costituisce titolo sufficiente del credito,
  • legittima la concessione del decreto ingiuntivo,
  • legittima, altresì, la condanna del condomino a pagare le somme nel processo di opposizione piena.

Nel giudizio di opposizione, il giudice deve verificare la perdurante esistenza ed efficacia della delibera di approvazione della spesa e di ripartizione dell’onere (Cass. SS. UU. 26629/2009; Cass. 4672/2017).

In quella sede, il giudice può sindacare:

  • la nullità della delibera – posta a fondamento dell’ingiunzione – dedotta dalla parte o rilevata d’ufficio,
  • l’annullabilità della delibera, purché sia dedotta con apposita domanda riconvenzionale di annullamento contenuta nell’atto di citazione ex art. 1137 c. 2 c.c. nel termine perentorio di 30 giorni ivi previsto, e non in via di eccezione (Cass. SS. UU. 9839/2021).

Infatti, il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo è un ordinario giudizio di cognizione, pertanto, il giudice dell’opposizione non può confermare il decreto ingiuntivo senza verificare la validità del titolo (nel nostro caso, il titolo è rappresentato dalla deliberazione assembleare posta a fondamento dell’ingiunzione).

Inoltre, la nullità della delibera impugnata può essere rilevata d’ufficio o esaminata su eccezione di parte anche dal giudice d’appello (Cass. 26243/2014).

Costituzione del fondo speciale come condizione di validità

Il previo allestimento del fondo speciale – «”di importo pari all’ammontare dei lavori”, ovvero la costituzione progressiva del medesimo fondo per i pagamenti man mano dovuti, “in base a un contratto”, correlati alla contabilizzazione dell’avanzamento dei lavori» – rappresenta una condizione di validità della delibera di approvazione delle opere, la cui sussistenza deve essere verificata dal giudice in sede di impugnazione ex art. 1137 c.c. La disposizione è posta a presidio:

  • sia dell’interesse collettivo al corretto funzionamento della gestione del Condominio,
  • sia dell’interesse del singolo condomino ad evitare «il proprio rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi, secondo quanto ora dal comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c.» (si ricorda che i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini).

La delibera assunta a maggioranza non può avere un contenuto contrario alla disposizione in parola (art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.) né può decidere di non provvedere alla costituzione del fondo o modificare le modalità di costituzione previste dalla legge. Ciò neppure nel caso in cui l’appaltatore vi consenta, in quanto una simile decisione risulta pregiudizievole per tutti i condomini e per le esigenze di gestione condominiale. Pertanto, una simile delibera è nulla.

Costituzione del fondo speciale come condizione di validità

Il previo allestimento del fondo speciale – «”di importo pari all’ammontare dei lavori”, ovvero la costituzione progressiva del medesimo fondo per i pagamenti man mano dovuti, “in base a un contratto”, correlati alla contabilizzazione dell’avanzamento dei lavori» – rappresenta una condizione di validità della delibera di approvazione delle opere, la cui sussistenza deve essere verificata dal giudice in sede di impugnazione ex art. 1137 c.c. La disposizione è posta a presidio:

  • sia dell’interesse collettivo al corretto funzionamento della gestione del Condominio,
  • sia dell’interesse del singolo condomino ad evitare «il proprio rischio di dover garantire al terzo creditore il pagamento dovuto dai morosi, secondo quanto ora dal comma 2 dell’art. 63 disp. att. c.c.» (si ricorda che i creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini).

La delibera assunta a maggioranza non può avere un contenuto contrario alla disposizione in parola (art. 1135 c. 1 n. 4 c.c.) né può decidere di non provvedere alla costituzione del fondo o modificare le modalità di costituzione previste dalla legge. Ciò neppure nel caso in cui l’appaltatore vi consenta, in quanto una simile decisione risulta pregiudizievole per tutti i condomini e per le esigenze di gestione condominiale. Pertanto, una simile delibera è nulla.

Conclusioni: delibera nulla e ricorso rigettato

Gli ermellini rilevano come la delibera del 2017 approvata dai condomini, avente ad oggetto spese di manutenzione straordinaria per 487 mila euro (importo ripartito in tre rate da 18 mila e successive 57 rate da circa 7 mila), non indica:

  • né la costituzione del fondo speciale per l’intera somma,
  • né che il contratto di appalto preveda il pagamento graduale in relazione allo stato di avanzamento dei lavori e che il fondo sia stato costituito in relazione ai singoli pagamenti.

Pertanto, dal momento che le censure svolte dal Condominio non smentiscono l’invalidità della delibera, il ricorso viene rigettato con condanna al pagamento delle spese per il giudizio di legittimità.

Mediazione in condominio: le novità della riforma Cartabia

Con la recente riforma del processo civile (D.lgs 149/2022), il legislatore ha disposto l’abrogazione dei commi 2, 4, 5 e 6 del vigente articolo 71-quater disp. att. c.c. mantenendo in vigore il solo comma 1 che definisce l’ambito di applicabilità della condizione di procedibilità in materia condominiale e novellando il comma 3 con il rinvio all’articolo 5-ter Dlgs. n. 28/2010 (punto 2 dell’art. 2 del D.lgs 149/2022).

Questa norma (art. 5-ter Legittimazione in mediazione dell’amministratore di condominio) stabilisce quanto segue:

“l’amministratore del condominio è legittimato ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi. Il verbale contenente l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore sono sottoposti    all’approvazione dell’assemblea condominiale, la quale delibera entro il termine fissato nell’accordo o nella proposta con le maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile. In caso di mancata approvazione entro tale termine la conciliazione si intende non conclusa”.

Il terzo comma è stato invece modificato nel seguente modo: al procedimento è legittimato a partecipare l’amministratore secondo quanto previsto dall’articolo 5-ter Dlgs. n. 28/2010.

Non vi è dubbio che la soluzione più logica e semplificante sarebbe stata quella di modificare solo l’articolo 71-quater disp. att. c.c., evitando il richiamo ad una norma esterna (l’articolo 5-ter Dlgs. n. 28/2010) e la conseguente necessità di considerare due disposizioni collocate in testi normativi differenti.

L’articolo 5-ter Dlgs. n. 28/2010 è destinato a creare diversi inconvenienti.

L’amministratore del condominio è legittimato senza delibera ad attivare un procedimento di mediazione, ad aderirvi e a parteciparvi: si tratta di una norma volta a snellire la procedura ma di difficile applicazione pratica atteso che il professionista incaricato dai condomini di gestire il caseggiato eviterà di assumere iniziative non concordate e magari ritenute inutili dalla collettività condominiali (assumerà solo le decisioni urgenti nell’interesse della sicurezza dei condomini e di terzi).

Estremamente generica appare poi la maggioranza con cui i condomini devono approvare l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore: il testo ambiguamente parla di “maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile”. Il vecchio testo precisava che per l’approvazione della proposta di mediazione era richiesta la maggioranza di cui all’articolo 1136 c.c., secondo comma (e cioè la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio). Non senza incertezze bisognerebbe continuare ad approvare l’accordo di mediazione con la stessa maggioranza.

Verifica qualità dell’acqua in condominio: nuovo decreto 18-2023, gli obblighi per gli amministratori

Gli obblighi previsti per l’amministratore di condominio dal nuovo decreto 18-2023 in materia di affidabilità degli impianti condominiali per la salubrità dell’acqua.

L’affidabilità degli impianti condominiali ha assunto notevole importanza, come si evince dall’art. 1120 c.c., in materia di innovazioni, che fa riferimento alla sicurezza e alla salubrità degli impianti.  Vediamo di seguito gli obblighi previsti per l’amministratore condominiale dalla normativa vigente, in particolare sulla distribuzione dell’acqua per il consumo umano, alla luce del nuovo decreto legislativo 18 2023.

La nuova normativa per la qualità delle acque destinate al consumo umano: Decreto 18/2023

Attualmente la situazione è cambiata in quanto, in attuazione della direttiva (UE) 2020/2184 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2020, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano, è stato emanato il decreto legislativo n. 18 del 23 febbraio 2023.

Gli obiettivi del Decreto sono:

  • la protezione della salute umana dagli effetti negativi derivanti dalla contaminazione delle acque destinate al consumo umano, assicurando che le acque siano salubri e pulite, nonché
  • il miglioramento dell’accesso alle acque destinate al consumo umano.

Nell’ambito della normativa si segnala il comma 4 dell’articolo 9 che prevede uno specifico obbligo di formazione a cura delle Regioni in coordinamento con il ministero per i gestori dei sistemi idrici interni, gli idraulici e per gli altri professionisti che operano nei settori dei sistemi di distribuzione idrici interni.

Le utili precisazioni del Decreto n. 18/2023 sulla verifica delle acque

L’articolo 4 del Decreto mette in evidenza che le acque destinate al consumo umano devono essere salubri e pulite, non devono contenere microrganismi, virus e parassiti, né altre sostanze in quantità tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana e devono soddisfare i requisiti minimi stabiliti dall’allegato I, parti A, B, C del Decreto. Quest’ultimo chiarisce che, salvo comprovate cause di forza maggiore, ivi inclusa la documentata impossibilità del di accedere o intervenire su tratti di rete idrica ricadenti in proprietà privata, la responsabilità del gestore idrico integrato si estende fino al punto di consegna, cioè il punto in cui la condotta di allacciamento idrico si collega all’impianto o agli impianti dell’utente finale (sistema di distribuzione interna), cioè in corrispondenza del misuratore dei volumi (contatore).

Acqua condominiale: responsabilità ed obblighi dell’amministratore

Il Decreto n. 18/2023 sottolinea che gestore della distribuzione idrica interna è l’amministratore di condominio, responsabile del sistema idro-potabile di distribuzione interno, collocato fra il punto di consegna e il punto d’uso dell’acqua, cioè il punto di uscita dell’acqua destinata al consumo umano, da cui si può attingere o utilizzare direttamente l’acqua, generalmente identificato nel rubinetto. L’amministratore deve effettuare una valutazione e gestione del rischio dei sistemi di distribuzione idrica interni alle strutture prioritarie (individuate all’allegato VIII, con particolare riferimento ai parametri elencati nell’allegato I, parte D). Inoltre è tenuto ad adottare le necessarie misure preventive e correttive, proporzionate al rischio, per ripristinare la qualità delle acque nei casi in cui si evidenzi un rischio per la salute umana derivante da questi sistemi.

Le sanzioni a carico dell’amministratore per la verifica dell’acqua condominiale

L’articolo 23 del Decreto prevede delle sanzioni amministrative a carico dell’amministratore. Se, nel sistema di distribuzione interno, non viene mantenuto il rispetto dei parametri elencati nell’allegato I, parti A e B è prevista una sanzione a carico dell’amministratore da euro 5.000 a euro 30.000. L’inosservanza dell’obbligo di implementazione di valutazione e gestione del rischio del sistema di fornitura idro-potabile imposti dalle competenti autorità è soggetto al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria da 4.000 a 24.000 euro.

Inammissibile l’istanza di revoca giudiziale per l’amministratore in proroga post scadenza

L’amministratore che cessi dalle sue funzioni dopo un anno dalla nomina oltre un anno di prorogatio, non ha più obblighi gestori, né diritto a compensi, per cui non può esserne richiesta la revoca.

Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza del 19 aprile 2023, pubblicata il 2 maggio 2023, torna ad affrontare la sempre delicata questione della possibilità di procedersi alla revoca giudiziale, nel caso di amministratore in prorogatio. Lo fa, confermando la tesi della inammissibilità dell’istanza di revoca giudiziale ex articolo 1129 Codice civile, nel caso in cui l’amministratore sia in prorogatio.
Il provvedimento in esame illustra in modo chiaro ed ampio, il quadro un cui si colloca la procedura azionata per ottenere la rimozione (revoca) dell’amministratore. L’ordinanza richiama la norma di riferimento, spiegando l’importanza della volontà assembleare, quale vera “dominus” nella decisione da assumere. Il regime di prorogatio, tuttavia, non è privo di conseguenze negative per lo stesso amministratore non ancora rimosso ed ancora, solo formalmente, in carica. Ne consegue, infatti, la perdita del diritto alla percezione del
compenso.

I fatti di causa
Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza in commento, infine, si sofferma sulla natura del procedimento (volontaria giurisdizione), ricordando la possibilità, anche parallela se non addirittura autonoma, che innanzi al Tribunale, in un giudizio cosiddetto a cognizione piena, si chieda l’accertamento dell’inadempimento nell’operato dell’amministratore. Nel caso trattato dal Tribunale campano, un condomino chiedeva la revoca dell’amministratrice, lamentando molteplici inadempienze della stessa la quale, peraltro, si costituiva in
giudizio contestando quanto dedotto dal ricorrente. All’esito dell’udienza di comparizione delle parti, emergeva che l’amministratrice della quale era stata richiesta la revoca, operasse in regime di prorogatio. Richiamando l’orientamento della sezione del medesimo Tribunale, il collegio riteneva che dovesse «escludersi che sia consentito chiedere in via giudiziaria la revoca dell’amministratore giunto alla scadenza del mandato e operante in regime di mera prorogatio imperii».

La norma di riferimento
La norma di riferimento è certamente l’articolo 1129 comma 10 Codice civile, secondo cui «l’incarico di amministratore di condominio ha la durata di un anno e si intende rinnovato per eguale durata. L’assemblea convocata per la revoca o le dimissioni delibera in ordine alla nomina del nuovo amministratore». Orbene, l’espressa indicazione del termine durante il quale l’incarico può essere rinnovato è stata introdotta dalla legge 220/2012 che ha riscritto il testo del previgente articolo 1129 Codice civile, il quale si limitava a stabilire la
durata annuale dell’incarico di amministratore di condominio. Tale previsione del termine di rinnovo, si legge nell’ordinanza, è evidentemente frutto della volontà del legislatore di considerare l’amministratore di condominio, in caso di sua mancata revoca, ancora in carica in regime di prorogatio per un solo anno durante il quale soltanto si ritiene, in virtù di una presunzione semplice, che l’amministratore – la cui nomina non sia stata confermata dall’assemblea – continui a porre in essere atti gestori in forza della volontà dei condòmini e nel loro interesse.

Cessazione incarico il secondo anno
«Decorso il secondo anno, invece, l’amministratore cessa dal suo incarico automaticamente, ossia senza la necessità di un’espressa manifestazione di volontà dell’assemblea, perdendo immediatamente i poteri rappresentativi dei condòmini e quelli gestori in precedenza a lui attribuiti». In tale situazione l’unico potere dovere che residua in capo all’amministratore è dunque quello, previsto dall’articolo 1129 comma 8 Codice civile, di compiere gli atti urgenti necessari ad evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto a compensi ulteriori.

La volontà assembleare
Per effetto di tali disposizioni il legislatore ha dunque valorizzato la volontà assembleare stabilendo che i condòmini, «quanto meno allo scadere di un biennio dalla nomina dell’amministratore, debbano necessariamente valutare se la gestione da lui posta in essere sia stata corretta e adottare una delibera con cui espressamente decidono se confermare o meno l’incarico al soggetto precedentemente nominato o nominare un nuovo amministratore». Solo in tal modo si possono infatti evitare situazioni di protrazione della gestione
condominiale da parte di un amministratore il quale continua ad agire in rappresentanza dei condòmini senza un’investitura assembleare.

Nessun obbligo, nessun compenso
Una volta cessato il rapporto contrattuale non sarà dunque più possibile richiedere, con una procedura di volontaria giurisdizione, la revoca dell’amministratore. Al ricorrere di una tale evenienza l’esigenza di sostituire l’amministratore, qualora il condominio abbia più di otto condòmini, dovrà invece essere soddisfatta attraverso la proposizione di un ricorso per la nomina di un amministratore giudiziario ex articolo 1129 comma 1 Codice civile, sempre che venga dimostrata l’inerzia dell’assemblea dei condòmini che, seppur
convocata a tal fine, non abbia raggiunto il previsto quorum costitutivo o deliberativo. In contrario non varrebbe obiettare che, aderendo a tale interpretazione del quadro normativo, non è più possibile valutare l’operato dell’amministratore cessato dall’incarico ed applicare la sanzione di cui all’articolo 1129 comma 13 Codice civile.

La natura del procedimento di revoca
Il procedimento di volontaria giurisdizione volto alla revoca giudiziale dell’amministratore mira infatti ad ottenere, in caso di accertate inadempienze, la risoluzione anticipata del rapporto di mandato ed è improntato a requisiti di rapidità, informalità ed ufficiosità dal momento che il decreto emesso al suo esito, ai sensi dell’articolo 64 comma 1 disposizioni attuative Codice civile, deve essere adottato omettendo ogni formalità, eccettuata quella di instaurare il contraddittorio con l’interessato, come si evince dalla sintetica formula
normativa «sentito l’amministratore».

Anche la giurisprudenza di legittimità ha del resto affermato che il procedimento in questione:

  • riveste un carattere eccezionale ed urgente nonché sostitutivo della volontà assembleare;
  • è ispirato all’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela del diritto ad una corretta gestione condominiale a
    fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore;
  • è di conseguenza improntato a celerità, informalità ed ufficiosità ma non riveste efficacia decisoria
    lasciando ferma la facoltà del mandatario revocato di chiedere la tutela del diritto provvisoriamente inciso dal
    decreto facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (1237/2018).

Quando l’interesse viene meno
Qualora non vi sia più interesse ad ottenere una pronuncia di carattere urgente, perché l’amministratore di cui è stata chiesta la revoca è già cessato dalla carica oppure perché nelle more del procedimento è stata adottata una delibera di nomina di un nuovo amministratore, la procedura di volontaria giurisdizione non può dunque essere più proposta o coltivata. Sempre possibile la devoluzione al Tribunale per la valutazione dell’inadempimento. «Nulla però osta a che venga attivato un giudizio a cognizione piena diretto a valutare le pregresse inadempienze poste in essere dall’amministratore nell’espletamento dell’incarico, con conseguente operatività della sanzione di cui all’articolo 1129 comma 13 Codice civile, oppure la correttezza della sua condotta ed il pregiudizio conseguito all’erronea attivazione del procedimento di volontaria giurisdizione». Alla luce di quanto emerso e, quindi, in considerazione del regime di prorogatio in cui operava l’amministratrice, il Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso, contenendo la richiesta di revoca di un amministratore che, per stessa ammissione del ricorrente, era già cessato dalla carica.

Il controllo sulla salubrità dell’acqua potabile e obbligo di verifica

L’amministratore è obbligato a sottoporre l’acqua a controlli periodici?

Il controllo sulla salubrità dell’acqua potabile deve essere effettuato dall’ente erogatore oppure insiste un obbligo di verifica anche in capo all’amministratore, in qualità di supervisore degli impianti condominiali? La legge al riguardo non è chiara, cerchiamo di fare il punto della situazione.

Acqua potabile: definizione normativa.
Si intende per acqua potabile quella destinata al consumo umano, quella trattata o non trattata, destinata ad uso potabile, per la preparazione di cibi e bevande, o per altri usi domestici, a prescindere dall’origine, sia essa fornita tramite una rete di distribuzione, mediante cisterne, in bottiglie o in contenitori (art. 1 lett. a) n. 1 d. lgs. 31/2001).

Contratto di fornitura del condominio.
Il negozio di erogazione dell’acqua potabile è un contratto di somministrazione di natura privata pur avendo ad oggetto l’esercizio di un servizio pubblico (Cass. SU. 8103/2004).

Proprio in ragione della sua peculiare natura, il regolamento contrattuale ha delle particolarità, come il prezzo, definito da disposizioni regolamentari. Inoltre, l’ente erogatore deve rispettare la carta dei servizi. Il controllo circa il rispetto degli standard qualitativi dei servizi idrici è rimesso all’Autorità per l’energia elettrica il gas ed il sistema idrico (AEEGSI)

Gli impianti condominiali.
L’art. 1120 c.c., in materia di innovazioni, fa riferimento alla sicurezza e alla salubrità degli impianti. La norma risulta fortemente innovativa; infatti, in passato, si poneva rilievo unicamente alla sicurezza della struttura dell’edificio, mentre adesso assume importanza anche l’affidabilità degli impianti.

L’impianto idrico e i relativi collegamenti sono oggetto di proprietà comune fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche (art. 1117 n. 3 c.c.). Il d. lgs. 31/2001 offre delle definizioni molto precise in materia di distribuzione dell’acqua.

Analizziamole e poi valutiamo il ruolo dell’amministratore.
Le condutture, i raccordi, le apparecchiature installati tra i rubinetti normalmente utilizzati per l’erogazione dell’acqua destinata al consumo umano e la rete di distribuzione esterna rappresentano l’impianto di distribuzione domestico (art. 1 lett. b) n. 1 d. lgs. 31/2001).

La delimitazione tra impianto di distribuzione domestico e rete di distribuzione esterna, denominata punto di consegna, è costituita dal contatore, salva diversa indicazione del contratto di somministrazione. L’acqua viene distribuita dal gestore del servizio idrico, ossia colui che fornisce acqua a terzi attraverso impianti idrici autonomi o cisterne, fisse o mobili (art. 1 lett. c) n. 1 d. lgs. 31/2001).

Controlli: deve farli l’ente erogatore o l’amministratore?
L’art. 5 del d. lgs. 31/2001 dispone che per gli edifici e le strutture in cui l’acqua è fornita al pubblico, come i condomini, il titolare ed il titolare della gestione dell’edificio o della struttura devono assicurare che i valori di parametro fissati dalla legge, rispettati nel punto di consegna, siano mantenuti nel punto in cui l’acqua fuoriesce dal rubinetto. Il dettato normativo pare suggerire quanto segue:

  • il gestore (vale a dire chi somministra l’acqua) deve verificare la salubrità dell’acqua sino al punto di consegna (ossia il contatore);
  • l’amministratore (il titolare della gestione dell’edificio secondo la lettera della legge) deve verificare la sussistenza dei valori di legge dal punto di consegna sino al rubinetto.

Parere del Ministero della Salute: nessun obbligo per l’amministratore.
La norma così interpretata (art. 5 d. lgs. 31/2001) porrebbe un compito assai gravoso in capo all’amministratore. Sul punto è intervenuto un parere del Ministero della Salute che chiarisce la corretta interpretazione della disposizione. Il parere del 10 giugno 2004 sull’articolo 5 del d. lgs. 31/2001 statuisce che per gli edifici ad uso esclusivamente abitativo, “l’amministratore del condominio ovvero, in assenza di questo, i proprietari non hanno l’obbligo di effettuare le attività e i controlli previsti dagli artt. 7 e 8 del decreto in oggetto, bensì quello derivante dall’attività di controllo dello stato di adeguatezza e di manutenzione dell’impianto”.

In buona sostanza, l’amministratore ha la responsabilità di garantire che i requisiti di potabilità dell’acqua non vengano alterati per cause imputabili all’impianto idrico del condominio.

Il parere del Ministero, infatti, dispone che se vi sia motivo di ritenere che nella fase di trasporto dal contatore all’utenza le caratteristiche dell’acqua possano essere alterate, “l’amministratore non solo è tenuto a fare le verifiche del caso, ma soprattutto è tenuto ad adottare i provvedimenti necessari a ristabilire i requisiti di potabilità”.

I controlli che deve fare l’amministratore di condominio.
Come si è visto, spetta all’amministratore il controllo sullo stato degli impianti, compreso quello idrico. Ad avviso di chi scrive, l’amministratore, inoltre, in base allo stato della rete idrica condominiale, dovrebbe farsi carico di un controllo sulla salubrità dell’acqua.
Infatti, certune tipologie di impianti, a causa dell’usura o per i materiali utilizzati nella realizzazione delle tubature di adduzione, potrebbero esporre i condomini a dei rischi; pertanto un controllo periodico, in quelle circostanze, sarebbe quantomeno opportuno.
L’acqua, infatti, può essere portatrice di batteri letali, si pensi alla legionella, questo impone un’attenzione ancora maggiore quando si tratta di controlli.

Sanzioni penali in caso di acqua contaminata.
L’importanza di effettuare dei controlli sulla salubrità dell’acqua emerge anche dalla circostanza che il d.lgs n.31/2001 preveda sanzioni molto elevate; in particolare dispone il pagamento della somma:

  • da euro 10.329 a euro 61.974 per chi fornisca acqua che contenga microrganismi o parassiti o altre sostanze in quantità o concentrazioni tali da rappresentare un potenziale pericolo per la salute umana (art. 19 comma 1);
  • da euro 5.164 a euro 30.987 quando i valori di parametri fissati dalla legge, rispettati nel punto di consegna, non siano mantenuti nel punto in cui l’acqua fuoriesce dal rubinetto (art. 19 comma 2).

Qualora l’amministratore, conoscendo il cattivo stato delle condutture ovvero la presenza di perdite o di cattivi odori lamentati dai condomini, non abbia preso provvedimenti ed assunto le verifiche necessarie, si presentano profili di responsabilità e può essere soggetto alle sanzioni di cui sopra. Egli, infatti, in qualità di mandatario dei condomini, deve agire con la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1710 c.c.) e compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell’edificio (art. 1130 n. 4 c.c.)

La normativa comunitaria: la direttiva acque potabili.
L’Unione Europea è sempre in prima linea nella tutela dell’ambiente. Attualmente si applica la direttiva 2015/1787/UE in materia di controlli e analisi delle acque potabili, recepita con D.M. 14 giugno 2017.

La citata direttiva ha modificato la precedente 98/83/CE del Consiglio, attuata con d. lgs. 31/2001 sopra citato come modificato dal d. lgs. 27/2002. La normativa ha lo scopo di tutelare la salute pubblica dagli effetti negativi derivanti dalla contaminazione delle acque destinate al consumo umano, garantendone la salubrità e la pulizia; mira, inoltre a verificare che le misure previste per contenere i rischi perla salute umana, in tutta la filiera idro-potabile, siano efficaci e che le acque siano salubri e pulite nel punto in cui i valori devono essere rispettati. Si segnala che allo studio della Commissione v’è una nuova direttiva che “prevede un monitoraggio sulle microplastiche nei bacini idrici e misure per migliorare l’accesso all’acqua potabile degli europei nelle aree svantaggiate”

Conclusioni.
L’amministratore non è tenuto per legge ad effettuare controlli capillari sulla salubrità dell’acqua; tuttavia su di lui grava l’obbligo di verifica sullo stato di adeguatezza e di manutenzione dell’impianto. In altre parole, l’amministratore ha la responsabilità di garantire che i requisiti di potabilità dell’acqua non vengano alterati per cause imputabili alla rete idrica condominiale. Qualora le condizioni dell’impianto (vetustà, usura, tipologia di materiali impiegati) possano cagionare un’alterazione della qualità dell’acqua, l’amministratore non solo è tenuto a fare le verifiche del caso, ma soprattutto è obbligato ad adottare i provvedimenti necessari a ristabilire i requisiti di potabilità. In difetto, è passibile delle sanzioni previste dall’art. 19 d. lgs. 31/2001.