Compensi non dichiarati dall’amministratore

Secondo la Cassazione Sez. Tributaria, Sentenza n° 9359 dell’8 maggio 2015, l’applicazione degli studi di settore rappresenta un «sistema di presunzioni semplici» che fanno scattare l’accertamento se il contribuente non giustifica i compensi.

Come difendersi dagli studi di settore.

L’amministrazione finanziaria, per rilevare i parametri fondamentali di reddito dei professionisti, lavoratori autonomi e aziende ha introdotto un sistema di accertamento induttivo realizzato mediante la raccolta sistematica dei dati che caratterizzano l’attività e il contesto economico in cui opera l’impresa/il professionista, al fine di determinare preventivamente la capacità di produrre reddito.

Considerato inizialmente uno strumento di accertamento praticamente infallibile, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 26635 del 2009, ha ridimensionato il campo di applicazione degli studi settore dando la possibilità al contribuente di presentarsi al contraddittorio con l’amministrazione fornendo le prove del suo reddito effettivamente prodotto rispetto a quello previsto dagli studi di settore ottenendo l’annullamento dell’accertamento. Quindi, gli studi di settore rappresentano delle “presunzioni semplici” in quanto costituiscono un sistema “standard” di determinazione del reddito e dunque, per essere provate, vanno sempre corroborate da altri elementi. In particolare, per l’accertamento diventa essenziale in presenza del contraddittorio con la parte.

Il caso. Con sentenza n° 9359 dell’8 maggio 2015, la sezione Tributaria della Corte di Cassazione, ha precisato che la procedura di accertamento mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, caratterizzata dal contraddittorio obbligatorio con il contribuente, costituisce un sistema di presunzioni semplici. Per tali ragioni ha valutato valido l’accertamento basato sugli studi di settore, effettuato a carico dell’amministratore di condominio, sul quale grava il sospetto di compensi in nero da parte dei proprietari dei fabbricati gestiti. Gli standard delle Entrate sono infatti un «sistema di presunzioni semplici» che fanno scattare l’accertamento quando il contribuente non si giustifica nell’ambito del contraddittorio.

Precedenti. Ricordiamo che precedentemente la stessa Corte aveva stabilito, con ordinanza 5 marzo 2013, n. 5473, sempre in tema di accertamento induttivo, che il reddito imponibile dell’amministratore di condominio può essere calcolato dal Fisco sulla base del numero dei condomìni. Nel caso di specie il contribuente non aveva portato in giudizio idonea documentazione atta a dimostrare che il reddito accertato non fosse reale, ma non ha nemmeno indicato i diversi esiti a cui si sarebbe potuto giungere in base a tale documentazione.

Impianto di condizionamento collocato sul muro perimetrale dell’edificio

Deve ritenersi legittima la delibera dell’assemblea condominiale che all’unanimità consente la prosecuzione dell’utilizzo della cosa comune da parte del proprietario esclusivo che ha installato un impianto di condizionamento dell’aria sul muro perimetrale dell’edificio dovendo osservarsi la mancanza di lesività della condotta per la minima incidenza materiale dell’uso esclusivo sia dall’assenza di un manifestato interesse contrario, dovendosi ritenere legittimo l’uso più intenso dello spazio condominiale da parte del singolo proprietario esclusivo, ricordando che l’utilizzo paritetico della cosa comune, che va tutelato, deve essere compatibile con la ragionevole previsione dell’utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa, e non anche della identica e contemporanea utilizzazione che in via meramente ipo tetica e astratta essi ne potrebbero fare.

Cass. Civile, sentenza n. 8857, sezione Sesta, del 04-05-2015

 

Terrazza condominiale – Omessa impermeabilizzazione del Terrazzo

È il condominio responsabile dell’omessa impermeabilizzazione del terrazzo comune che provoca infiltrazioni negli appartamenti sottostanti. L’omessa impermeabilizzazione del terrazzo condominiale depone per una connotazione in termini di imprudenza e negligenza, e pertanto di colpa, della condotta nel caso mantenuta dal condominio da cui è conseguito l’evento dannoso delle infiltrazioni, le quali in presenza viceversa di condotta diligente estrinsecantesi nella realizzazione della detta impermeabilizzazione non si sarebbero, in base a ad un criterio di normalità, invero verificate.

Cass. Civile, sentenza n. 9294, sezione Terza Civile, del 08-05-2015

La scala di accesso al tetto

La scala per accedere al tetto è di tutti anche se a costruirla fu solo il condomino dell’ultimo piano. Deve escludersi che la stabile occupazione del ballatoio tramite il manufatto possa attrarre il bene nella sfera della proprietà esclusiva: non si tratta di uso estensivo del lastrico ex articolo 1102 Cc.

MERCOLEDI’ 04 MARZO 2015

La scala che conduce al lastrico solare di proprietà comune appartiene a tutti, anche se a realizzarla materialmente fu uno solo dei condomini: la costruzione, che pure ha determinato l’occupazione stabile di una parte del ballatoio, non può infatti essere considerata ex articolo 1102 Cc l’espressione di un uso intensivo della cosa comune – nella specie il tetto dell’edificio – tale da attrarre il bene nella sfera della proprietà esclusiva di chi l’ha promossa in prima persona. È quanto emerge dalla sentenza 4372/15, pubblicata il 4 marzo dalla seconda sezione civile della Cassazione. Utilizzo e limiti È accolto contro le conclusioni del sostituto procuratore generale il ricorso di uno dei condomini che, dopo le infiltrazioni d’acqua in casa, non ha potuto salire sul tetto con la scala a chiocciola che sta nel ballatoio: il vicino “ostruzionista” l’ha chiusa con tanto di lucchetti.

A realizzare il passaggio che conduce al lastrico solare di proprietà comune fu quest’ultimo, uno degli originari comproprietari dell’immobile, prima della divisione del fabbricato. Ma in mancanza di titolo contrario la scala deve ritenersi appartenente a tutti perché insiste sul ballatoio comune e conduce al tetto, che pure non è di proprietà esclusiva.

E deve escludersi che possa essere usucapita la parte di bene comune che risulta occupata mediante il manufatto: l’uso della cosa comune, infatti, è regolato dall’articolo 1102 Cc e sottoposto a due limiti fondamentali laddove ogni condomino non può alterarne la destinazione d’uso né impedire agli altri di farne parimenti uso secondo il loro diritto; i paletti posti dalla disposizione, spiegano gli “ermellini”, devono essere considerati nel concreto: mai il singolo condominio può attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva sottraendola al godimento degli altri. E dunque il condomino dell’ultimo piano, che pure ha costruito personalmente la scala a chiocciola verso il tetto, non può impedire al vicino di salire sul lastrico solare per porre rimedio alle infiltrazioni d’acqua. In ogni caso i condomini hanno il diritto di partecipare ai vantaggi dell’innovazione che può essere rappresentata dalla scala contribuendo alle spese di installazione e di manutenzione. Parola al giudice del rinvio.

Sentenza cancello

Oggetto: Installazione di cancelli – Chiusura notturna e diurna – Delibera assembleare – Maggioranza qualificata – Innovazione qualificata – Non sussiste.

sentenza 3509, sezione Seconda, del 23-02-2015 ((C.c. art. 1120 )) massima n.1

È legittima la delibera dell’assemblea condominiale che senza maggioranza qualificata decide l’installazione dei cancelli pedonale e carrabile all’ingresso del complesso, nonostante la presenza di un’autofficina all’interno, dovendosi ritenere che l’opera non costituisca un’innovazione qualificata perché non altera la destinazione d’uso dei beni mentre l’assemblea ben può regolamentare l’utilizzo, riducendolo, dei beni comuni, dovendosi ritenere detta decisione foriera di interventi migliorativi in quando preclude al condominio l’accesso di veicoli estranei.

Morosità e decreto ingiuntivo

Il condomino moroso non può opporsi al decreto ingiuntivo lamentando che alcune spese non state approvate dall’assemblea

Corte di Cassazione Civile, sezione seconda, sentenza n. 6436 del 19 Marzo 2014. In materia di decreto ingiuntivo destinato al condomino moroso, è possibile proporre opposizione ma non ci si può basare sulla mancata approvazione da parte dell’assemblea di alcune voci di spesa, non potendosi tale opposizione estendersi a questioni attinenti la nullità o l’annullabilità della  delibera condominiale di approvazione delle spese. E’ quanto stabilito dalla Cassazione nella sentenza in oggetto.
Nel caso di specie un condomino che si era visto notificare un decreto ingiuntivo per il pagamento di spese condominiali, aveva proposto opposizione contestando Vi erano comprese anche alcune somme che non erano state approvate attraverso una regolare delibera assembleare.

La Cassazione In proposito ha ricordato che “l’amministratore di condominio può e deve ricorrere al procedimento monitorio ex art. 63 disp. att. c.p.c. (…) allorquando un condomino sia moroso rispetto alle quote addebitatagli a seguito di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea dei condomini” e, nell’eventualità non risulti approvata una singola voce di spesa deve tuttavia ricordarsi come “l’art. 63 citato non può mai estendersi a questioni relative all’annullabilità o alla nullità della delibera condominiale di approvazione delle spese, delibera che dovrà essere impugnata separatamente ex art. 1137 c.c.”. L’impugnazione della delibera deve essere effettuata in separata e idonea sede, non certo in occasione di opposizione a decreto ingiuntivo, così da dare origine ad autonomo processo di cognizione.

Ripartizione delle spese comuni

Ripartizione delle spese comuni: quando le delibere condominiali sono nulle e quando annullabili?

 Ai sensi dell’art. 1123 cod. civ. è necessario il voto unanime dei condomini per l’approvazione della delibera condominiale che stabilisce o modifica i criteri di riparto delle spese comuni. In caso contrario, la delibera è nulla. E’ quanto stabilito dalla sentenza in oggetto, in cui la Suprema Corte si sofferma altresì a qualificare giuridicamente le conseguenze dell’applicazione di tali criteri affetti da nullità. Nel caso di specie un condomino si oppone al decreto ingiuntivo emesso a seguito di mancato pagamento di oneri condominiali, ripartiti appunto attraverso l’applicazione di criteri non varati all’unanimità. La Corte d’Appello ha dichiarato la nullità della delibera impugnata (sebbene non tempestivamente) ricalcolando il saldo dovuto dal privato, nettamente inferiore rispetto a quello contenuto nel decreto ingiuntivo. Risultato soccombente in primo e secondo grado, il condominio propone ricorso in Cassazione.
La Cassazione conferma la sentenza impugnata, riconoscendo come consolidato l’orientamento giurisprudenziale che non solo, in assenza di unanimità di volontà dei condomini, individui ex novo i criteri di ripartizione delle spese condominiali, ma che solo anche ne apporti modifiche. Infatti “in tema di condominio sono affette da nullità, che può essere fatta valere anche da parte del condomino che le abbia votate, le delibere condominiali attraverso le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i criteri di ripartizione delle spese comuni in difformità da quanto previsto dall’articolo 1123 Cc o dal regolamento condominiale contrattuale, essendo necessario per esse il consenso unanime dei condomini”; per quanto riguarda le deliberazioni successive, inerenti all’applicazione dei criteri così stabiliti, “sono annullabili e, come tali, impugnabili nel termine di cui all’articolo 1137, ultimo comma, Cc, le delibere con cui l’assemblea, nell’esercizio delle attribuzioni previste dall’articolo 1135, comma  2 e  3, Cc, determina in concreto la ripartizione delle spese medesime in difformità dai criteri di cui all’articolo 1123 Cc”.

Corte di Cassazione Civile, sezione seconda, sentenza n. 15523 del 20 Giugno 2013.

Se i pannelli fotovoltaici abbagliano i vicini

Se i pannelli fotovoltaici abbagliano i vicini, scatta l’ordine “ex 700” di modificarne l’inclinazione

Provvedimento d’urgenza perché si rischia il danno alla salute. Niente da fare per il proprietario, che pure si offre di installare vetri auto-oscuranti: riducono troppo la luce naturale negli appartamenti

L’energia pulita fa male. Possibile? Sì, se l’impianto fotovoltaico del dirimpettaio abbaglia le case del vicinato e obbliga i proprietari a tenere le tapparelle chiuse, senza nemmeno poter uscire su balconi e terrazze. Per il proprietario scatta allora l’ordine del giudice ex articolo 700 Cpc: deve modificare l’inclinazione dei pannelli per non accecare i residenti negli immobili di fronte al suo. E il provvedimento d’urgenza si spiega perché con l’effetto della luce riflessa si rischiano danni alla salute. Non può allora trovare ingresso il reclamo del proprietario, che pure svolge un’attività d’impresa e si offre di installare vetri auto-oscuranti alle finestre dei dirimpettai: si tratta infatti di una soluzione che riduce comunque in modo drastico l’illuminazione naturale degli appartamenti. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata dalla seconda sezione civile del tribunale di Perugia (giudice Stefania Monaldi).

Immissioni intollerabili
Deve rassegnarsi il proprietario: inutile invocare i meri dati della “Cornell formula”, in base ai quali la presenza dei pannelli non sarebbe così invasiva come sostengono i residenti dell’area; né giova l’invito a contemperare le esigenze dei dirimpettai con quelle della sua attività produttiva, che non può fare a meno dell’impianto. A inchiodare la società intervengono le risultanze complessive delle perizie: i dirimpettai sono costretti a tenere persiane e scuri chiusi per ore, specie di pomeriggio, si configurano dunque immissioni luminose che superano la normale soglia di tollerabilità ex articolo 844 Cc. E la circostanza che il fenomeno si verifichi solo (o soprattutto) d’estate non ne sminuisce il potenziale lesivo: il fatto di non poter fruire per un’intera stagione di luce e vedute dell’immobile costituisce in ogni caso un innegabile detrimento nel godimento del bene, tale da superare l’asticella fissata dal legislatore per evitare di dare ingresso a questioni bagatellari.

Pregiudizi irreversibili
Non bisogna poi dimenticare che l’esposizione duratura a una fonte luminosa di notevole intensità può causare pregiudizi anche irreversibili all’apparato visivo di una persona. E le Ctu parlano chiaro: non si può guardare in direzione di quei pannelli senza essere costretti a chiudere gli occhi. Nemmeno i vetri auto-oscuranti riducono la gravità del problema. Insomma: sugli interessi dell’azienda prevalgono i diritti dei residenti ex articolo 703 Cpc. Al reclamante non resta che pagare le spese.

Sì alla rimozione delle piante poste a meno di tre metri dal confine

Accolta la domanda del ricorrente: i tre ulivi posti sul fondo agricolo limitrofo vanno eliminati

Vanno rimosse le piante se collocate a una distanza inferiore ai tre metri dal confine con la proprietà del vicino, come previsto dal disposto dell’articolo 892 c.c.  Lo ha dichiarato il Tribunale di Perugia con la sentenza n. 1249/14. Il giudice di primo grado accoglie il ricorso del ricorrente che chiedeva, tra le altre cose, la rimozione di tre ulivi, piantati sul fondo del vicino.
In merito alle domande proposte dal ricorrente sull’arretramento/rimozione degli alberi fino alla distanza consentita, il Ctu accertava che  «le tre piante di ulivo, poiché le stesse sono classificate in botanica come piante ad alto fusto, le stesse, per quanto disposto dall’articolo 892 c.c., devono essere piantate ad una distanza non inferiore a tre metri dal confine». Nel caso di specie, il Ctu ha potuto accertare una distanza dal confine compresa tra i 131 e i 141 centimetri: tali piante sono state definite dal consulente «giovani e, comunque, d’età inferiore ai venti anni, tenuto conto anche della circonferenza del tronco, che va dai 38 centimetri della pianta più piccola ai 52 centimetri di quella più grande». Pertanto, il Tribunale perugino dispone che i convenuti rimuovano le tre piante.

Spese per la manutenzione e le riparazioni

Corte di Cassazione Civile Sesta Sezione Sentenza n. 3636/2014
La Cassazione ha esaminato un caso relativo alle spese per la manutenzione e la riparazione degli edifici e, più nello specifico, i fatti di causa si riferivano ad una questione sollevata innanzi al giudice di pace di Napoli da due condomini nei confronti di un altro proprietario chiedendo “che fosse condannato a pagar loro la quota di spettanza di spese condominiali attinenti al corrispettivo di un contratto di appalto intercorso tra il Condominio ed una società cooperativa, rimasto inadempiuto e che aveva formato oggetto di un ricorso per ingiunzione da parte dellappaltatrice nei confronti dellente di gestione, conclusosi con lemissione di un decreto portante lingiunzione di questultimo di pagare Euro 16.717,43; di seguito la Cooperativa aveva pignorato detto importo, corrispondente ai fitti delle attrici, facendoselo assegnare in sede di espropriazione“.

Ovviamente il condomino chiamato in causa si è costituito in giudizio sostenendo di non dover nulla per aver già corrisposto la quota di spettanza all’amministratore del Condominio.

La Suprema Corte, analizzando la questione, già rigettata nelle fasi precedenti dai giudici territoriali, ha affermato che “il principio sancente la divisibilità delle obbligazioni dei condomini nei confronti del terzo creditore, affermato da Sez. Un. n. 9148/2008, è perfettamente compatibile, con la ritenuta divergente soluzione portata da Sez. 2^ n. 21907/2011 in cui si riaffermava la solidarietà tra comproprietari di un immobile sito in condominio, nei confronti dellazione del Condominio stesso- dal momento che, come indicato nella parte motiva di questultima decisione, la prima sentenza riguardava la diversa problematica delle obbligazioni contratte dal rappresentante del condominio verso i terzi e non la questione esaminata nella più recente decisione relativa al se, nei confronti del Condominio, le obbligazioni relative agli oneri condominiali, in capo ai comproprietari di un immobile considerato come unico ai fini delle carature millesimali -, ricadano o meno nella disciplina del debito ad attuazione solidale“;

Secondo gli ermellini, che alla fine hanno rigettato il ricorso, si deve in ogni caso considerare “che va affermato il principio secondo il quale, ponendosi il Condominio, nei confronti dei terzi, come soggetto di gestione dei diritti e degli obblighi dei singoli condomini attinenti alle parti comuni -, lamministratore dello stesso assume la qualità di necessario rappresentante della collettività dei condomini sia nella fase di assunzione di obblighi verso terzi per la conservazione delle cose comuni sia, allinterno della collettività condominiale, come unico referente dei pagamenti ad essi relativi, così che non è idoneo ad estinguere il debito pro quota del singolo condomino, il pagamento diretto eseguito a mani del creditore del Condominio le volte in cui il creditore dellente di gestione non si sia a sua volta munito di titolo esecutivo nei confronti del singolo condomino“.