Ingiunzione al condomino moroso e rendiconto non approvato

Spesso i condomini affermano di non dovere pagare le proprie quote condominiali perché il rendiconto è sbagliato o è stato approvato irritualmente. Non sempre però tale eccezione è in grado di cogliere nel segno; anzi, in alcuni casi è pienamente superabile, se non temeraria.

A norma dell’articolo 1130 nr 3 Codice Civile l’amministratore è tenuto a riscuotere i contributi dovuti pro quota dai condomini al fine di erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e garantire l’esercizio dei servizi di rilevanza condominiale.

Per potere curare tale incombenza egli è tenuto, a monte, a rendere il conto del propria gestione, e cioè a presentare all’assemblea dei condomini il Rendiconto condominiale di cui all’articolo 1130 bis Codice civile. Questo documento contabile, il quale deve essere espresso in modo tale da consentire “ai più” la immediata verifica delle risultanze, deve contenere le voci di entrata e di uscita e ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio.

Il Rendiconto, in particolare, deve comporsi di un registro di contabilità, di un riepilogo finanziario, nonché di una nota sintetica esplicativa della gestione con l’indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti.

Una volta approvato dall’Assemblea con le maggioranze prescritte dalla legge, l’Amministratore, per ottenere il pagamento delle somme risultanti dal bilancio stesso, non è tenuto a sottoporre all’esame dei singoli condomini i documenti giustificativi delle spese effettuate (cosiddette “pezze di appoggio”), potendo fare esplicito riferimento al relativo contenuto e/o al piano di riparto delle spese.

Anzi, per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea, l’Amministratore, senza bisogno di autorizzazione di questa, può’ ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo, previo richiamo espresso di esso (cfr, articolo 63 delle Disposizioni di attuazione al Codice civile.

Ciò tuttavia, in caso di contestazione del debito (e non solo) da parte del compartecipe “moroso”, non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità necessaria tra il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo e il giudizio di impugnazione della delibera assembleare di cui all’articolo 1137 codice civile.

L’assioma è stato recentemente ribadito dal Tribunale di Verona – adito quale giudice del gravame (avverso sentenza emessa dal Giudice di Pace) – con la pronuncia pubblicata in data 03 giugno 2015

Succedeva che un condòmino, al fine di contestare la pretesa economica contenuta in seno ad un provvedimento monitorio, chiedeva, incidentalmente, al Giudice di Pace di pronunciarsi sulla “asserita” invalidità della delibera assembleare ad essa presupposta,laddove aveva disposto l’approvazione del rendiconto.

In accoglimento della pretesa, l’Autorità giudiziaria di primo grado revocava il Decreto ingiuntivo e poneva nel nulla la statuizione assembleare.

La Sentenza, ritualmente impugnata dal condominio ricorrente, è stata poi riformata dal Giudice d’appello, spiegando il seguente iter argomentativo.

Giova ricordare che per costante orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento degli oneri condominiali, non è ammesso invocare la revoca del decreto sulla scorta dell’asserita invalidità della delibera assembleare (Cass., sez. 2, 8 agosto 2000, n. 10427; Cass., sez. 2, 24 agosto 2005, n. 17206; Cass., sez. 2, 31 gennaio 2008, n. 2305; Cass., sez. 2, 20 luglio 2010, n. 17014; argomenti in tal senso anche da Cass., sez. un., 18 dicembre 2009, n. 26629 e, in motivazione, da Cass., sez. un., 27febbraio 2007, n. 4421).

Il contenuto delle difese che è in grado di opporre il condòmino “moroso” avverso al decreto ingiuntivo ricevuto da parte del Condomino creditore può riguardare la sussistenza del debito e la documentazione posta a fondamento dell’ingiunzione, ovvero il verbale della delibera assembleare, ma non è in grado di estendersi alla nullità o annullabilità della delibera avente ad oggetto l’approvazione delle spese condominiali.

Questi ultimi vizi, che concernono un altro e differente atto giuridico, devono essere fatti valere in via separata con l’impugnazione di cui all’art. 1137 cod. civ..

In effetti, l’attualità del debito non è subordinata alla validità della delibera, ma solo alla sua perdurante efficacia.

Quindi, il giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo deve rimanere confinato «all’accertamento dell’idoneità formale (validità del verbale) e sostanziale (pertinenza della pretesa azionata alla deliberazione allegata) della documentazione posta a fondamento dell’ingiunzione e della persistenza o meno dell’obbligazione dedotta in giudizio (Cass. 8.8.2000 n. 10427 e 29.8. 1994 n. 7569)», in quanto: «il giudice deve limitarsi a verificare la perdurante esistenza ed efficacia delle relative delibere assembleari, senza poter sindacare, in via incidentale, la loro validità, essendo questa riservata al giudice davanti al quale dette delibere siano state impugnate». (Cass. SS.UU. 26629/2009).

Alla stregua di quanto sopra riportato: « …non avrebbe potuto l’opponente proporre dinanzi al giudice di pace la domanda di accertamento incidentale con efficacia di giudicato della nullità delle delibere assembleari asseritamente connesse al decreto ingiuntivo opposto e il giudice adito (cioè il Giudice di Pace), investito dell’impugnazione della sentenza di primo grado avrebbero dovuto dichiarare improponibile la domanda stessa, senza entrare nel merito della questione che essa poneva… ».

In conclusione, il Tribunale veronese ha, da una parte, riformato la sentenza di primo grado, stante il grossolano errore di diritto commesso dal Giudice e, dall’altra parte, ha condannato il condòmino opponente al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.

Il condominio deve effettuare i lavori per bloccare le infiltrazioni dall’attico salvo ripartizione pro quota delle spese

Ente di gestione tenuto a intervenire per la responsabilità da custodia, ma l’esborso grava per un terzo sul proprietario esclusivo della terrazza e per il resto sugli altri immobili lungo la verticale

Spetta al condominio effettuare i lavori di riparazione per le infiltrazioni d’acqua dalla terrazza in uso esclusivo che non derivano da un fatto imputabile al proprietario esclusivo: per l’ente di gestione si configura infatti la responsabilità da custodia ex articolo 2051 Cc, mentre varranno soltanto in un secondo momento i criteri di ripartizione delle spese, che prevedono un terzo a carico del proprietario esclusivo e il resto sui condomini i cui immobili sono compresi nella proiezione verticale del manufatto. È quanto emerge dalla sentenza 25288/15, pubblicata il 16 dicembre dalla seconda sezione civile della Cassazione.

Diritti e conservazione
Bocciato il motivo di ricorso che lamenta la violazione dell’articolo 1126 Cc. I criteri di ripartizione delle spese necessarie ai lavori per i lastrici solari di uso esclusivo, osservano gli “ermellini”, non incidono sulla legittimazione del condominio nella sua interezza: l’amministratore risulta infatti tenuto a provvedere alla conservazione dei diritti sulle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’articolo 1130 Cc. Quando il danno deriva dall’omessa manutenzione della terrazza, dunque, spetta al condominio in quanto custode ex articolo 2051 Cc rispondere dei danni derivati a uno dei proprietari esclusivi o a terzi. E ciò anche nell’ipotesi in cui le infiltrazioni d’acqua provengono dall’attico, un lastrico solare in uso esclusivo. A provvedere alla riparazione o alla ricostruzione deve essere l’amministratore, in quanto rappresentante di tutti i condomini tenuti a effettuare la manutenzione della terrazza, compreso il proprietario del lastrico o colui che ne ha comunque l’uso esclusivo. Soltanto dopo le spese saranno suddivise sulla base del criterio ex articolo 1126 Cc.

Delibera efficace
È accolto solo uno dei motivi di ricorso, relativo a una questione che risale a prima della formazione del condominio. Gli “ermellini” formulano anche un altro principio di diritto, stavolta su questioni processuali: quando il condominio fa acquiescenza rispetto a una sentenza, il potere del singolo condomino di impugnare in modo autonomo non vanifica certo l’eventuale delibera della maggioranza che abbia deciso in tal senso. E ciò perché la decisione dell’assemblea vale a esonerare l’amministratore dal dovere di impugnare, se egli ritenga di procedere in tal senso, sollevandolo nel contempo dalle relative responsabilità verso i condomini. Parola al giudice del rinvio per la questione ancora aperta.

Divulgazione frasi ingiuriose

Attenzione a non riportare frasi ingiuriose nelle lettere inviate ai condomini,anche se riproducono fedelmente ciò che è stato trascritto nel verbale di assemblea.

Tale divulgazione, infatti, non inerisce al diritto – dovere di informare i condomini sull’andamento dell’assemblea ma implica il reato di diffamazione (articolo 595 codice penale).

Così si è espressa la Corte di Cassazione (sezione penale, sentenza n. 44387 del 2015) che ha confermato la condanna dell’amministratore, per il citato reato, per aver inviato una lettera a tutti i condomini in cui riportava le frasi ingiuriose espresse, nel corso di un’assemblea, da un geometra contro due condomini dicendogli che «non capivano niente ed erano malfattori, gentaglia e delinquenti» (uno dei due condòmini offeso era il presidente dell’assemblea che aveva contestato il bilancio predisposto dall’amministratore che si era, successivamente, dimesso).

L’amministratore, a sua difesa, richiamava a giustificazione l’articolo 51 codice penale («esercizio di un diritto o adempimento di un dovere»), per cui egli aveva il diritto – dovere di informare i condomini sulle vicende relative all’assemblea e su tutte le vicende in generale.

Sosteneva che la lettera non era finalizzata a offendere la reputazione dei due condomini – in quanto era indirizzata ai soli diretti interessati – e che le espressioni non erano a lui imputabili (essendosi limitato a riportarle).

Non sono stati dello stesso avviso i giudici di legittimità i quali hanno ritenuto che in ordine all’articolo 51 codice penale «la libertà di riferire i fatti, ed anzi, il dovere quale amministratore di informare i condomini (…) doveva accordarsi con l’interesse della persona offesa a che non venisse amplificata l’espressione ingiuriosa asseritamente pronunciata da un terzo ai suoi danni» non sussistendo alcun interesse generale dei condòmini a conoscere le espressioni ingiuriose pronunciate durante l’assemblea.

In pratica l’unico interesse effettivo che andava divulgato a tutti poteva essere quello di far conoscere le dichiarazioni del geometra non avendo utilità alcuna, per i condomini, apprendere l’esistenza di offese nei confronti di alcuni di essi.

Nei fatti, la Cassazione ha ribadito che tale divulgazione (accertata dalle lettere inviate a tutti i condomini e non spedite solo ai due soggetti interessati e contenenti anche una serie di ulteriori comunicazioni di interesse condominiale) faceva comodo all’amministratore perché costituiva un canale di trasmissione con il quale le ingiurie potevano diffondersi il più possibile allo scopo di offendere la reputazione dei due condomini.

Non è la prima volta che un giudice nel valutare il comportamento dell’amministratore ha configurato il reato di diffamazione quando, per esempio, affigge nell’atrio del condominio i nomi dei condomini morosi . Il comportamento divulgativo ha trovato rilievo anche sotto il profilo della violazione del diritto alla privacy.

La disciplina del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, prescrive che il trattamento dei dati personali deve avvenire nell’osservanza dei principi di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti.

la Cassazione, nella fattispecie in esame, ha applicato tali principi della proporzionalità delle condotte in funzione dello scopo da perseguire (divulgare i fatti a scopo informativo e non divulgare le offese non pertinenti allo scopo informativo).

L’Amministratore e la comunicazione dei dati dei condomini

Il ruolo dell’amministratore di condominio è profondamente cambiato a seguito della riforma del 2012.

L’approvazione della legge 220 del 2012 ha comportato un giro di vite sulla professione, con la creazione di obblighi e doveri ai quali il professionista della gestione condominiale deve sottostare.

Obblighi preesistenti, inoltre, sono stati implementati nel tentativo di qualificare e responsabilizzare la figura dell’amministratore.

Tra questi citati doveri figurano quelli relativi all’informativa condominiale.

In particolare, quindi, esistono delle situazioni nelle quali l’amministratore ha l’obbligo di comunicare informazioni relative al condominio e ai comproprietari, ai condòmini stessi e addirittura ambiti in cui la legge impone doveri di informativa verso i terzi.

Per quanto riguarda le informazioni verso i terzi, l’amministratore con il mandato di gestione dello stabile assume dei precisi oneri di comunicazione di dati alla pubblica amministrazione e verso i creditori condominiali.

In particolare egli ha l’onere di comunicare all’agenzia delle entrate, a seguito di sua espressa richiesta, “dati, notizie e documenti relativi alla gestione condominiale” (si veda Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 29 settembre 1973) e devono altresì comunicare annualmente all’anagrafe tributaria “l’ammontare dei beni e servizi acquistati dal condominio e i dati identificativi dei relativi fornitori” (Decreto del Presidente della Repubblica n. 605 del 29 settembre 1973).

In caso di lavori edili all’interno dello stabile, poi, l’amministratore assume l’obbligo di gestire per il condominio la direzione degli stessi e quindi obblighi di informativa dei lavoratori sui “rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi all’attività di impresa in generale” (articolo 36 del Decreto Legislativo 81 del 2008).

L’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile, poi, ha introdotto un obbligo di informativa verso i creditori del condominio stabilendo come egli sia “tenuto a comunicare ai creditori non ancora soddisfatti che lo interpellino i dati dei condomini morosi”.

A semplice richiesta di un creditore, quindi, egli dovrà provvedere alla comunicazione di un elenco dei condomini in debito con il pagamento delle spese di gestione, di modo che questi si soddisfi con priorità verso gli stessi.

Esistono, parallelamente agli obblighi di informativa verso i terzi, svariati doveri di informazione ai condòmini.

Il principio è, chiaramente, quello in ragione del quale i comproprietari debbano essere informati di tutto quello che riguarda la vita condominiale, ma esistono delle eccezioni.

L’articolo 1131 del Codice Civile infatti, disciplina i poteri di rappresentanza in giudizio dell’amministratore di condominio, stabilendo come egli possa “agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi” nei limiti delle “attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea”.

L’articolo prevede anche un obbligo per l’amministratore di informare l’assemblea senza indugio in caso il condominio venga citato in giudizio.

E’ il caso però di fare notare come la legge preveda specificamente come detto obbligo di informativa sussista solamente ove la questione verta su una materia che esula dalle attribuzioni dell’amministratore.

Di conseguenza – al contrario – non sussiste nessun obbligo di informativa se la citazione o il provvedimento ricevuto rientrano tra le attribuzioni stabilite.

Esistono, poi, obblighi di informativa sia verso i condomini che verso i terzi nell’ambito della tutela della privacy.

In caso di apposizione di telecamere di sicurezza, infatti, il condominio assume il ruolo di titolare del trattamento dei dati personali e deve fornire una informativa alle persone fisiche che accedano allo stabile.

Questa informativa deve essere predisposta dall’amministratore, che assume la veste del responsabile del trattamento ai sensi degli articoli 4 e 29 del Codice della Privacy.

L’amministratore deve quindi informare i soggetti che entrano nel palazzo della presenza delle telecamere di sorveglianza e della modalità di trattamento dei dati ripresi dalle stesse.

E’ chiaro quindi come il panorama normativo preveda in capo all’amministratore svariati obblighi di comunicazione di dati, o informativa, sia all’interno che all’esterno dello stabile.

In caso di violazione dei predetti doveri è chiaro come il mandatario possa essere ritenuto responsabile per i danni causati al condominio e addirittura, in certi casi, andare incontro alla revoca (ad esempio in caso di mancata informativa della citazione ricevuta dal condominio ai sensi dell’articolo 1131 del Codice Civile).

E’ chiaro come per l’amministratore non sia affatto facile adempiere a tutti gli obblighi di informativa allo stesso incombenti (che si sommano a tutti gli ulteriori oneri e doveri relativi alla gestione dello stabile).

Ai fini di una più funzionale e trasparente gestione del condominio, nonché della facilitazione della professione dell’amministratore, si può ipotizzare una soluzione: l’articolo 71 ter delle disposizioni di attuazione del Codice Civile consente, su richiesta dell’assemblea e a spese del condominio, di attivare un sito internet dello stabile che permetta agli aventi diritto di estrarre e consultare in via informatica le delibere assembleari.

Si potrebbe, quindi, ipotizzare l’utilizzo degli strumenti informatici per fornire alcune delle informative previste per legge (ad esempio quelle relative al Codice della Privacy).

Stop alla delibera se mancano i nomi dei condomini favorevoli e contrari con i relativi millesimi

Non basta che sussista il quorum per la decisione adottata: nel verbale devono essere indicati per nome assenzienti e dissenzienti nelle votazioni rispetto ai singoli punti dell’ordine del giorno

Va annullata la delibera condominiale nel caso in cui non siano individuati, e riprodotti nel relativo verbale, i nomi dei condomini assenzienti e dissenzienti, e i valori delle rispettive quote condominiali. Come infatti ha evidenziato la Corte di legittimità «non è conforme alle disposizioni dettate in tema di condominio negli edifici concernenti l’assemblea e, specificamente, la formazione degli atti nel collegio, la delibera per la cui approvazione, in occasione delle singole votazioni, l’assemblea si limita a prendere atto del risultato della votazione, sulla base del numero dei votanti, e omette di individuare nominativamente i singoli condomini favorevoli o contrari e le loro quote millesimali». A chiarirlo è la sentenza 3886/15 della tredicesima sezione civile del tribunale di Milano che ha annullato una delibera impugnata da alcuni condomini ribadendo, se ce ne fosse bisogno, la differenza tra nullità e annullabilità. Nulle devono essere qualificate come nulle le delibere prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito, con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, quelle che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, quelle comunque invalide in relazione all’oggetto. Annullabili sono invece le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all’oggetto.

Nel caso in esame scaturito dall’approvazione da parte del condominio di un punto relativo al rifacimento del mattonato, il condominio, cui spetta l’onore di provare che tutti i condomini sono stati ritualmente convocati, ha provato la sola convocazione di uno dei condomini producendo la cartolina postale. Altro punto a vantaggio dei condomini quello relativo al primo punto all’ordine del giorno che di fatto prevedeva il solo rifacimento parziale della pavimentazione del porticato, mentre il capitolato dei lavori sottoposto all’assemblea prevedeva il rifacimento totale. Ancora. I ricorrenti evidenziano la genericità e l’imprecisione del verbale assembleare carente dell’indicazione dei condomini favorevoli e contrari alla deliberazione. Infatti «nel verbale si legge che all’assemblea hanno partecipato 40 teste per 187,04 millesimi con indicazione analitica dei condomini presenti personalmente o per delega, di quelli assenti e dei millesimi di proprietà per ciascuno di essi. Dunque dal verbale si evince con certezza la sussistenza del quorum costitutivo dell’assemblea. Tuttavia, con riferimento alla votazioni sui singoli punti all’ordine del giorno la delibera contiene delle omissioni, tali per cui non è dato conoscere i nominativi condomini che hanno votato in favore dei singoli punti dell’ordine del giorno, dei contrari e degli astenuti». La delibera per tutti questi motivi va quindi annullata.

Garanzia decennale anche per i lavori di ristrutturazione in condominio

La garanzia decennale in materia di appalti opera anche nelle ristrutturazioni, e non soltanto nella fase di costruzione vera e propria degli edifici. Infatti la garanzia del costruttore/appaltatore ai sensi dell’articolo 1669 del Codice civile (“Rovina e difetti di cose immobili”) scatta pure nel caso di interventi di riparazione e modifica successivi alla edificazione, nel caso di opere destinate per loro natura a lunga durata.

Il principio è riconfermato da una recente sentenza della Cassazione (n. 22553/2015 depositata il 4 novembre) , secondo cui la garanzia decennale prescritta dall’art 1669 può ben essere invocata anche con riguardo al compimento di opere – siano essi interventi di modificazione o riparazione – afferenti a un preesistente edificio. E ricade dunque sugli autori di tali interventi.

Il contenzioso sfociato alla fine in Cassazione contrapponeva una società di costruzioni a un condominio. La ditta aveva concluso nel ‘91 una importante serie di lavori di manutenzione straordinaria sullo stabile. Nel ‘96 l’amministratore aveva denunciato i primi guai, contestandoli alla ditta: macchie di umidità comparse in facciata; svariate fessure aperte sulle pareti esterne, sia nella tinta che nell’intonaco, avevano reso addirittura le facciate non più impermeabili, tanto da provocare infiltrazioni negli alloggi; vistose crepe nelle pareti e nel soffitto dei locali scale dei vari piani; in aggiunta le finestre di aerazione poste ad ogni piano risultavano inutilizzabili, mal montate, così come si era riscontrata la collocazione completamente errata dei telai delle persiane in alluminio.

La ditta, a fronte della richiesta del condominio di ovviare ai problemi, aveva rigettato ogni responsabilità. Il condominio quindi nel 97 aveva fatto causa chiedendo l’eliminazione dei vizi, oltre al risarcimento danni.

Il primo giudice aveva accolto il ricorso e condannato la ditta al pagamento danni, quantificato in 28mila euro circa. La sentenza era stata appellata da entrambe le parti.

La seconda fase della vicenda si era conclusa in Corte d’appello a Genova (sentenza n. 1381 depositata il 29 nov 2008), con un pronunciamento appellato di nuovo da entrambe le parti.

Nella sentenza appena depositata, la Cassazione respinge tre dei quattro motivi di ricorso promossi dalla ditta e ne accoglie uno solo, legato alla quantificazione del danno.

Nel corso dei processi la ditta, che ha sempre insistito sull’inapplicabilità dell’articolo 1669, ha cercato di far valere la circostanza che nel caso in specie non era mai esistito un vetro e proprio contratto di appalto. Infatti la società aveva acquisito la proprietà da terzi, ed aveva poi effettuato un importante intervento di manutenzione straordinaria. Quindi aveva agito in qualità di proprietaria esclusiva dello stabile, di cui poi aveva ceduto i singoli appartamenti con contratti separati.

In realtà già la Corte d’appello aveva trovato corretta l’applicazione della garanzia invocata. Ciò anche se, a rigore, gli interventi eseguiti sul fabbricato non potevano essere qualificati come di sola manutenzione straordinaria: accorpati due edifici aventi due diverse coperture; rifatte completamente le scale, realizzate in cemento armato; modificati i prospetti liberi con l’eliminazione degli archi sulle finestre; completamente ricostruiti due solai.

In sostanza la ditta non aveva restaurato l’edificio, non avendolo né consolidato, né ripristinato o rinnovato negli elementi costitutivi, e nemmeno arrecato radicali modifiche sostitutive, né portato lo stabile ad essere un immobile del tutto diverso dal preesistente. Aveva solo rinnovato e sostituito parti, anche strutturali, di un edificio già interamente edificato da terzi, avente caratteristiche ben precise, non modificate.

Tuttavia, è risultata corretta l’applicazione del 1669 sulla garanzia decennale, che non attiene dunque solo a vizi riguardanti la costruzione dell’edificio, o parte di esso, ma anche ai casi di modificazioni o riparazioni, se destinate per loro natura a lunga durata. La norma non ha un ambito applicativo limitato ai difetti costruttivi inerenti alla sola fase “genetica” di realizzazione dell’edificio, ma anche agli interventi successivi.

Azione del singolo condomino nei confronti dei morosi

Come può reagire un condòmino, in regola con il pagamento delle spese condominiali, a fronte di una inattività dell’amministratore verso i mancati pagamenti da parte degli altri condòmini?

La riforma del condominio (legge 220 /2012) ha posto limiti stringenti ma è possibile che l’amministratore, per svariate ragioni non le rispetti , mettendo così di fatto seriamente a rischio lo stesso condominio.

In questo caso gli stessi condòmini sarebbero esposti al rischio di una serie di azioni esecutive intraprese o contro i “ beni condominiali “ quali il conto corrente (azione esecutiva giudicata normalmente lecita dai tribunali) o direttamente contro i loro beni personali, seppure ora la “legge di riforma “ abbia imposto il vincolo di aggredire i condomini in regola con i pagamenti solo dopo aver inutilmente escusso quelli morosi il cui nominativo dovrà necessariamente essere fornito dall’ amministratore al creditore del condominio che ne faccia richiesta.

In presenza di un tale scenario, al condòmino volonteroso non resterebbe che reagire chiedendo la revoca dell’amministratore inadempiente: dapprima normalmente in sede assembleare ed in seguito al tribunale. Una volta ottenuta la revoca, il condòmino dovrebbe poi ottenere (sempre tramite assemblea o ricorso al Tribunale) la nomina di un nuovo amministratore.

È tuttavia possibile che tali rimedi, per molte ragioni, non diano l’esito sperato, e che in ogni caso i tempi necessari (almeno per quanto riguarda il ricorso al tribunale) siano tali da compromettere seriamente il buon andamento del condominio. A questo punto, visti frustrati i propri sforzi, il condòmino potrebbe avvalersi di quelle norme codicistiche che permettono al singolo di agire personalmente nel caso di pericolo imminente sostituendosi all’ amministratore nella tutela della cosa comune (articolo 1134 del Codice civile).

La Cassazione, facendo riferimento alla natura del condominio quale ente di gestione (sentenza 16562/2015) ritiene lecito che (seppur con talune limitazioni) ogni singolo condòmino possa reagire alla inerzia processuale dell’amministratore impugnando lui stesso (con effetti che si ripercuoterebbero su tutti i condòmini) anche di fronte alla stessa corte di cassazione la sentenza sfavorevole resa nei confronti del condominio.

Il condòmino, in sostanza, potrebbe sostituirsi all’amministratore inadempiente (purché questo non abbia ricevuto dalla assemblea l’autorizzazione a non perseguire i morosi) e tutelare il bene comune (e quindi in parte anche il suo) richiedendo egli stesso un decreto ingiuntivo nei confronti dei condòmini in ritardo nel pagamento delle spese condominiali.

Non risultano sentenze che si siano pronunciate sulla validità di tali iniziative da parte dei condòmini ma Cassazione (sentenza 4468/1995) aveva tuttavia ritenuto lecito che il singolo condòmino agisse in giudizio contro un altro condòmino per la restituzione (quanto meno pro quota) di quanto l’amministratore aveva, senza motivo, versato a quest’ultimo con fondi condominiali.

L’antenna per i cellulari paga Ici e Imu

Le antenne di telefonia mobile sono da accatastare in categoria D e quindi sono soggette a Ici e a Imu. È questa l’importante conclusione cui è pervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24026 depositata il 25 Novembre 2015 che ha visto vincere il comune ricorrente assistito dall’Anutel.

La sentenza è importante perché, da un lato, conferma l’applicazione di principi già utilizzati in casi similari, quali gli impianti eolici, e, dall’altro lato, interviene a ridosso di pronunce di merito che non sembrano far tesoro delle pronunce della Corte. È emblematico che per un caso identico, relat la Ctp di Reggio Emilia con la sentenza n.425 depositata il 9 novembre 2015 abbia ritenuto che l’antenna vada accatastata in categoria E.

La Cassazione conferma l’operato del catasto, che già con circolare 16 maggio 2006, n. 4 si era occupata in modo dettagliato dell’accatastamento delle antenne della telefonia mobile, distinguendo il caso delle antenne istallate su edifici esistenti da quello su aree di terreno all’uopo destinate.

Nel primo caso si tratta di antenne ancorate ai muri o sostenute da piccoli tralicci e dai relativi impianti elettrici ed elettronici. Se le apparecchiature elettroniche sono custodite nell’ambito di locali già esistenti, allora, ad avviso dell’Agenzia, non si configura un obbligo di accatastamento. Se, invece, le apparecchiature elettroniche vengono ospitate in specifiche aree e locali, preesistenti o di nuova costruzione, i manufatti devono essere dichiarati in catasto o in forma autonoma o come variazione della preesistente unità immobiliare.

Nel caso invece, come quello analizzato dalla Cassazione, di antenne collocate in un’area di terreno, di solito recintata, all’interno della quale è installato su platea di calcestruzzo un traliccio cui sono fissate le antenne, sussiste l’obbligo di procedere all’accatastamento.

Le puntuali indicazioni dell’agenzia del Territorio non sono state però integralmente recepite da parte della giurisprudenza di merito che ha continuato a ritenere corretto l’accatastamento in categoria E in ragione di una supposta preordinazione ad un’esigenza pubblica svolta dalle antenne. Motivazioni queste che erano state già escluse con riferimento agli impianti eolici (Cassazione n. 4030/2012; n. 4498/2012; n. 1979/2015), in quanto ininfluenti ai fini di un corretto accatastamento, anche alla luce di quanto previsto dall’art.2, comma 4 del Dl n. 262/2006, il quale prevede che nella categoria catastale E non possono essere compresi immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale. Ad avviso della Corte, la norma stabilisce una sorta di intrinseca incompatibilità tra la destinazione ad uso commerciale o industriale di un immobile e la possibile classificabilità in categoria E.

Peraltro, la Corte aveva già scrutinato la natura dell’antenna di telefonia nella sentenza n. 25837/2008, osservando che «il traliccio in questione ed annessa cabina, alla stregua dall’art. 873 c.c. e della consolidata giurisprudenza di questa Corte, 7285/05-12045/02-2228/01, debbano considerarsi a tutti gli effetti costruzioni: ossia opere aventi caratteri di solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo».

A CHI ADDEBITARE LE SPESE POSTALI ?

In tema di ripartizione delle spese condominiali, deve considerarsi nulla e come tale impugnabile anche fuori dal termine di trenta giorni, previsto dall’articolo 1137 del Codice civile, la delibera assembleare con la quale si addebitano a un condòmino spese di gestione specifiche se questi non le abbia espressamente accettate.

Questa, in sintesi,la decisione resa dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 7103, depositata in cancelleria il 9 giugno 2015 . La delibera così adottata, specifica il giudice, può essere impugnata dal diretto interessato anche se lo stesso abbia concorso all’approvazione del rendiconto e del riparto, senza con ciò assumere l’obbligazione di pagamento. In sostanza, questo si deduce dalla sentenza, un conto è approvare i conteggi di gestione, altro assumere l’impegno di pagare una spesa che, in una situazione di normalità, dovrebbe essere ripartita tra tutti i comproprietari.

Il caso che ha portato a questa decisione è di quelli molto ricorrenti: nel corso dell’anno l’amministratore intrattiene uno scambio di corrispondenza con un condòmino. Al momento della presentazione all’assemblea del rendiconto di gestione, l’amministratore pone a carico del destinatario delle sue missive le spese ad esse riferibili, pari a circa 50 euro. Il condomino non ci sta e impugna quella delibera: a suo modo di vedere la ripartizione così approvata dall’assemblea è da ritenersi nulla perché le spese postali dovevano essere considerate spese di amministrazione e come tali ripartite tra tutti i condòmini sulla base dei millesimi di proprietà.

In questo contesto, il Tribunale di Milano ha ritenuto errato l’addebito delle spese postali al singolo condomino. In primo luogo, richiamando quella giurisprudenza di Cassazione secondo la quale l’assemblea non può addebitare al singolo spese per cause che l’hanno visto come controparte del condominio, se non v’è stata dichiarazione giudiziale di soccombenza in tal senso (Cassazione, sentenza 14696/08).

In sostanza, per il giudice milanese la pronuncia in questione ha carattere generale ed incide su ogni genere di spesa asseritamente personale. Non solo: la sentenza 7103 cita un precedente del Tribunale di Napoli (sentenza 12015 del 29 novembre 2003) per la quale proprio le spese postali devono essere considerate spese generali di amministrazione e di conseguenza devono essere tra tutti i condòmini in base ai millesimi di proprietà. Per la pronuncia in esame, nel concetto di spese personali rientrano, ad esempio, le spese per le copie di documentazione dalla quale si è chiesta copia.

Da abbattere la tettoia costruita sotto le distanze minime che impedisce la veduta al vicino

L’ordine di demolizione scatta perché il manufatto realizzato sulla terrazza a meno di tre metri dal confine preclude l’esercizio della servitù a chi da tempo ha acquistato il relativo diritto

Va rimossa la tettoia in legno che impedisce al vicino l’esercizio della servitù di veduta. Infatti è l’art. 907 Cc a stabilire che «quando si è acquistato il diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino, il proprietario di questo non può fabbricare a distanza minore di tre metri, misurata a norma dell’art. 905 Cc». A sottolinearlo è la sentenza 781/15 della seconda sezione civile della Corte d’appello di Palermo che ha rigettato il ricorso di un condomino condannato in primo grado a rimuovere il manufatto da lui collocato nella propria terrazza e che negava il diritto di veduta alla vicina del terzo piano che, non ottenendo nulla con le “buone” lo ha dovuto citare in giudizio. Spiega la Corte territoriale in merito al caso specifico che è proprio la norma a ricollegare il diritto di veduta alla distanza «tra lo sporto dal quale si esercita la veduta e la nuova costruzione sul fondo vicino». Proprio in tale ottica, quindi, il tribunale ha riconosciuto la sussistenza del diritto della donna riscontrando, alla luce della Ctu, che il ricorrente non aveva rispettato la prescritta distanza nell’installare la tettoia sul terrazzo e quindi negando il pieno diritto di veduta. Oltre alla Ctu anche la documentazione fotografica dimostrava che quanto accertato corrispondeva al vero. A nulla valgono le doglianze circa la costituzione della servitù di veduta della vicina che in origine non esisteva, quindi la realizzazione di una finestra prima inesistente, senza l’allegazione delle eventuali modifiche apportate allo stato dei luoghi. Pertanto il ricorso è da rigettare e la tettoia da eliminare.