Revoca dell’amministratore condominio e sulla mediazione obbligatoria

Chiarimenti della Cassazione, con l’ordinanza 18/01/2018 n° 1237

L’art. 5, comma 4, lett. f, del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, è inequivoco nel disporre che il meccanismo della condizione di procedibilità non si applica nei procedimenti in camera di consiglio, essendo proprio il giudizio di revoca dell’amministratore di condominio un procedimento camerale plurilaterale tipico.

Si spiega, tuttavia, come il procedimento di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio: 

1) riveste un carattere eccezionale ed urgente, oltre che sostitutivo della volontà assembleare;

2) è ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, a fronte del pericolo di grave danno derivante da determinate condotte dell’amministratore;

3) è perciò improntato a celerità, informalità ed ufficiosità;

4) non riveste, tuttavia, alcuna efficacia decisoria e lascia salva al mandatario revocato la facoltà di chiedere la tutela giurisdizionale del diritto provvisoriamente inciso, facendo valere le sue ragioni attraverso un processo a cognizione piena (pur non ponendosi questo come un riesame del decreto).

Pertanto, il decreto con cui la Corte d’Appello in sede di reclamo su provvedimento di revoca dell’amministratore di condominio, dichiari improcedibile la domanda per il mancato esperimento del procedimento di mediazione  comunque non costituisce “sentenza”. Essendo sprovvisto dei richiesti caratteri della definitività e decisorietà, in quanto non contiene alcun giudizio in merito ai fatti controversi.

Pertanto, non pregiudica il diritto del condomino ad una corretta gestione dell’amministrazione condominiale, nè il diritto dell’amministratore allo svolgimento del suo incarico. Trattasi, dunque, di provvedimento non suscettibile di acquisire forza di giudicato.

Detrazioni per ecobonus e lavori di ristrutturazione.

Devono essere rimborsati all’erario i bonus fiscali, detratti indebitamente, in dichiarazione dei redditi.

Con l’avvio delle dichiarazioni dei redditi, i contribuenti che hanno diritto alle detrazioni fiscali per l’edilizia (quali bonus ristrutturazioni, ecobonus, sismabonus) stanno controllando bonifici, certificazioni dell’amministratore, dati della precompilata ecc. Tali detrazioni, come è noto, spettano per le spese sostenute ed effettivamente rimaste a carico. Pertanto, se il singolo contribuente o il condominio hanno ricevuto contributi o sovvenzioni per l’esecuzione degli interventi (si pensi al rimborso o contributo erogato da un Comune in caso di calamità), la detrazione va calcolata sulla parte della spesa al netto del contributo o sovvenzione (Circ. n. 57 del 24.2.98; Circ. n. 121 del 11.5.98, nonché le recenti f.a.q. rese note dall’Agenzia delle Entrate con riguardo alla presentazione della comunicazione dell’amministratore di condominio con scadenza al 28 febbraio).

Peraltro, in altra circostanza – si veda il Sole24Ore del 17 aprile 2018 -, abbiamo espresso il parere per cui, se il rimborso deriva da assicurazione condominiale, i cui premi non sono deducibili per i condòmini, la spesa si considera effettivamente rimasta a carico e non subisce decurtazioni.

Le suddette circolari precisano che, qualora i contributi da terzi siano erogati in un periodo d’imposta successivo a quello in cui il contribuente fruisce della detrazione, si applica l’art. 17 (allora era l’art. 16), comma 1, lettera n-bis), del Tuir, che prevede l’assoggettamento a tassazione separata delle somme conseguite a titolo di rimborso di oneri per i quali si è fruito della detrazione in periodi d’imposta precedenti.

Pertanto il contribuente dovrà compilare il quadro RM sez. III (se presenta il Modello Redditi) ovvero il quadro D – Altri redditi – Redditi soggetti a tassazione separata (se presenta il Modello 730). Deve essere indicato, tra l’altro, l’anno di sostenimento della spesa (per verificare il numero delle rate, rispetto alle 5 o 10 rate annuali, in cui si è fruito della detrazione in misura superiore a quella spettante); deve inoltre essere riportato l’importo della somma rimborsata e non quello della detrazione goduta.

Le istruzioni al modello 730 riportano – salvo un piccolo refuso – il seguente esempio: se la spesa è stata sostenuta nel 2012 per 20.000,00 euro di cui 5.000,00 euro sono stati oggetto di rimborso nel 2017 e si è applicata la rateizzazione in dieci rate, la somma da indicare è data dal risultato della seguente operazione:

5.000 euro (somma rimborsata) diviso 10 (numero di rate annuali in cui è ripartita la detrazione) moltiplicato per 5 (numero di rate già detratte nel 2012, 2013, 2014, 2015 e 2016) = 2.500 euro. Per le restanti cinque rate il contribuente indicherà, a partire dalla “presente” dichiarazione (per il 2017), la spesa inizialmente sostenuta ridotta degli oneri rimborsati (nell’esempio 20.000 – 5.000 = 15.000 euro) e calcolerà la rata su tale importo.

In altri termini deve essere assoggettato a tassazione separata (o ordinaria, su opzione: si veda oltre) il maggior importo sul quale è stata calcolata la detrazione (2.500 euro), fermo restando che dalla rata relativa al 2017, la quota di detrazione sarà calcolata come se si fosse effettuato il conteggio corretto sin dal primo anno.

In relazione alle somme da assoggettare a tassazione separata infine il contribuente deve effettuare il versamento di un acconto nella misura del 20 per cento (art. 1, D.L. 31 dicembre 1996, n. 669) in sede di autoliquidazione delle imposte (insieme ad Irpef, addizionali, cedolare ecc.); in caso di assistenza fiscale la somma è trattenuta dal sostituto d’imposta. L’ufficio procederà quindi alla liquidazione delle imposte dovute in base ai criteri di tassazione separata, indicati nell’art. 21 del Tuir.

Si ricorda infine, per completezza, che il contribuente – per i redditi e le somme non conseguiti nell’esercizio di impresa commerciale – può optare per la tassazione ordinaria, in luogo della tassazione separata, barrando l’apposita casella nei citati quadri RM o D della dichiarazione dei redditi.

Ai Comuni spetta la manutenzione dei marciapiedi

Sono molti i Comuni che hanno deliberato ordinanze con le quali attribuiscono ai condòmini l’onere di curare la manutenzione del tratto di marciapiede antistante lo stabile   liberandosi così dalle spese di gestione dei marciapiedi e dalla responsabilità in caso di incidenti dovuti alla mancata o inesatta manutenzione. Ma queste ordinanze non possono ribaltare sui condomìni le responsabilità dei danni causati a terzi da mancata manutenzione.

Il marciapiedi antistante al condominio, infatti, a differenza dei cortili e degli spazi interni, è suolo pubblico e quindi appartiene totalmente alla pubblica amministrazione. Il Decreto legislativo 285/92 (Codice della Strada) definisce chiaramente il concetto di strada pubblica e annovera i marciapiedi nel demanio. L’articolo 3, numero 33, infatti, specifica che si intende per marciapiede «parte della strada, esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta, destinata ai pedoni». Ed è quindi illegittimo che una semplice ordinanza comunale deroghi ad un decreto legislativo.

In particolare, il Comune mantiene la proprietà del marciapiedi anche per la porzione antistante allo stabile condominiale e tale diritto di proprietà comprende l’onere di effettuare le opere di manutenzione dovute e necessarie. Non esiste quindi alcun obbligo in capo al condominio e al suo amministratore di effettuare riparazioni o manutenzioni per rendere sicuro o agibile il marciapiedi. Si può affermare quindi che l’estensione del condominio arriva fino alle proprie mura esterne (tranne che esiste un’area «di sedime» dell’edificio), e che il marciapiede antistante non ne faccia parte.

Questa affermazione risulta cruciale, oltre che per le spese di manutenzione già accennate, al fine di determinare chi debba rispondere dei danni cagionati dal marciapiede.

Sul punto risulta chiara una sentenza emessa dalla Quarta Sezione Civile del Tribunale di Torino, che in data 5 dicembre 2012 dirimeva ogni dubbio su queste problematiche.

È infatti responsabile per i danni cagionati dalla cosa in custodia colui che ha del bene la custodia, intesa come potere di gestione. E, come chiarisce il Codice della Strada, «gli enti proprietari delle strade (…) provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi».

CONDOMINIO E NUOVA NORMATIVA PRIVACY

Entro il 25 maggio 2018 bisognerà attenersi a quanto disposto dal nuovo Regolamento Generale Europeo sulla Protezione dei Dati Personali (GDPR), anche con riferimento al trattamento dei dati nel Condominio, per non incorrere in pesanti sanzioni.

Le nuove norme riguardano tutte quelle realtà che in qualsiasi modo trattano dati personali delle persone fisiche, quindi anche il condominio. Vi è la necessità di individuare quali sono le novità per l’amministratore come responsabile del trattamento.

All’interno del condominio i dati personali sono ad esempio nome, cognome, indirizzo, codice fiscale, ma anche il numero dell’interno dell’abitazione o la bolletta dell’acqua se riconducibili ad un condomino. Tale precisazione era stata già effettuata dal Garante della Privacy successivamente all’entrata in vigore della legge 220/2012 e rimane valida anche per la nuova normativa.

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Per il rimborso della spesa anticipata, il condomino deve dimostrare l’urgenza

Per riavere quanto anticipato, il condomino che ha effettuato una spesa per un intervento eseguito su parti comuni, deve dimostrare l’urgenza, ossia la necessità di eseguire l’esborso senza ritardo e, pertanto, senza poter avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condòmini.

Lo ricorda il Tribunale di Savona, con sentenza n. 310 del 14 marzo 2018 . Apre la causa, la decisione di una S.r.l. di opporsi al decreto con cui il condominio le aveva ingiunto di pagare circa 20 mila euro ed avanzare, nel contempo, domanda riconvenzionale tesa ad ottenere il rimborso, anche con parziale compensazione, di quanto interamente sopportato per saldare numerose fatture emesse da due imprese di pulizia per prestazioni svolte a favore di tutti i condòmini. Richieste entrambe bocciate. Intanto, scrive il giudice, dalla documentazione prodotta era emerso che la Società non aveva chiesto rimborsi. Non solo. La delibera con cui erano state spartite le spese non era stata mai impugnata, diventando, così, definitiva. Ad ogni modo, nella vicenda, prosegue il Tribunale, seppure la delibera fosse stata impugnata, non vertendo sulla modifica dei criteri di spesa ma sull’eventuale violazione di criteri già stabiliti, la stessa sarebbe stata, al più, solo annullabile. Queste, le motivazioni del rigetto dell’opposizione.

Quanto, invece, alla fondatezza della domanda riconvenzionale, la prova del fatto che le somme chieste fossero effettivamente dovute alla società opponente appariva lacunosa già a partire dalle fatture prodotte, imprecise per data e per numero progressivo, assolutamente generiche nell’oggetto e, peraltro, intestate alla S.r.l. e non al condominio. Dal contratto di servizi, poi, non era possibile risalire esattamente al luogo preciso in cui si sarebbero dovuti prestare i lavori. E non era neanche chiaro se le fatture allegate agli atti si riferissero a spese direttamente sostenute per esigenze condominiali o se, di contro, fossero legate a coperture assicurative o altri esborsi non ben individuati. La domanda della S.r.l., infine, oltre a non essere adeguatamente provata nel quantum, difettava persino dei presupposti dell’obbligo di restituzione vantato. Non poteva accogliersi, difatti, la tesi per cui – letto l’articolo 1110 del Codice civile – ben avrebbe potuto affrontare personalmente le spese, vista la trascuratezza degli altri partecipanti. La norma, ricorda il Tribunale, è inapplicabile in presenza di un condominio, imponendosi in tal caso la disciplina speciale dettata dall’articolo 1134 del Codice civile, i cui presupposti sono maggiormente stringenti. Come più volte affermato (tra le altre: Cassazione 4330/2012), in materia condominiale non opera la disposizione inerente la comunione in generale – per cui il rimborso delle spese per la conservazione è subordinato solamente alla trascuratezza degli altri comproprietari – perché «mentre nella comunione i beni comuni costituiscono l’utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, nel condominio i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione».

Occorre parametrarsi, allora, ad indici molto rigorosi in base ai quali potrà dirsi urgente, ad esempio, la spesa da eseguirsi senza ritardo (Cassazione 4364/2001) o quella la cui erogazione non può essere differita senza danno o pericolo, secondo il criterio del buon padre di famiglia (Cassazione 5256/1980). Il diritto al rimborso delle somme anticipate scatta, in sintesi, provando l’urgenza della spesa sostenuta, letta come necessità di provvedere senza ritardo e senza poter avvisare tempestivamente l’amministratore o gli altri condòmini (Cassazione 4364/2001). Ipotesi, ovviamente, non rinvenibile nella fattispecie, stante la natura periodica – e, dunque, tutt’altro che occasionale o urgente – delle spese di cui l’opponente chiedeva il rimborso. Spese, va detto, mai portate formalmente a conoscenza dell’assemblea la quale, di conseguenza, non aveva mai adottato e non avrebbe potuto farlo, alcuna delibera di contenuto ricognitivo di eventuali situazioni debitorie facenti capo al condominio. Di qui, la conferma del decreto ingiuntivo e del provvedimento interinale provvisoriamente esecutivo.

Valida la delibera di nomina dell’Aministratore anche se manca l’indicazione del compenso

Il Tribunale di Palermo Sezione Seconda Civile ha stabilito con la Sentenza 9 Febbraio 2018 r.g. 7809/2016, che è valida la nomina dell’amministratore del condominio degli edifici, che ha omesso di precisare i riferimenti anagrafici e fiscali e quelli inerenti il compenso economico. Secondo il giudice , in particolare, il verbale assembleare contenente la delibera di conferimento dell’incarico non deve indicare necessariamente i dati di cui all’articolo 1129 del Codice civile. In altri termini, la delibera è valida anche senza la precisazione delle competenze professionali dell’amministratore, in quanto la specifica sull’entità del compenso può intervenire successivamente, cioè al momento dell’accettazione dell’incarico da parte del professionista.

Il contenzioso era partito da un condòmino, assente all’assemblea che aveva nominato l’amministratore senza però specificare, in sede di verbale, i rispettivi dati anagrafici e professionali e il compenso, in violazione dell’articolo 1129 del Codice civile.

Ma per il Tribunale i requisiti previsti dalla norma non sono stabiliti a pena di nullità della delibera ma piuttosto dell’atto di accettazione della nomina e del suo rinnovo, «che può anche essere successiva, appunto, alla delibera stessa». Tale disposizioni – dice la sentenza – si riferisce alla fattispecie della «Nomina, revoca ed obblighi dell’amministratore» e, pertanto, le sue diverse previsioni esulano da quelle invece inerenti la validità delle delibere assembleari.

Recupero delle somme da parte dei creditori del condominio

Prima di «escutere» i condòmini in regola con i pagamenti delle spese condominali, il creditore del condominio deve rivolgersi in via esecutiva ai condòmini morosi, il cui nominativo gli dovrà essere fornito dall’amministratore previa semplice richiesta (in caso non lo faccia, il creditore può rivolgersi al Tribunale per ottenerlo).

Ma dato che i condòmini morosi verso il condominio nella maggior parte dei casi avranno già subito esecuzioni immobiliari sia (appunto) dal condominio, sia magari dalla banca che aveva concesso il mutuo o da altri creditori, è molto probabile che il creditore sia costretto porre in essere delle esecuzioni molto costose e lunghe quanto inutili.

Quindi, molto spesso, i creditori del condominio preferiscono avvalersi del molto più efficace strumento del pignoramento del conto corrente condominiale, in modo da causare un danno al condominio (vista l’impossibilità di utilizzare il conto sino almeno alla concorrenza dell’importo pignorato) e di spingerlo (o per meglio dire costringerlo) a pagare il debito rapidamente.

Tuttavia, per quanto il pignoramento del conto corrente condominiale sia stato normalmente giudicato lecito dai Tribunali, in realtà va detto che il condominio, non avendo personalità giuridica, non può avere beni in proprietà. Inoltre, in questo modo vengono aggrediti proprio i beni dei condòmini “virtuosi”, in regola con i pagamenti: esattamente il contrario di quanto stabilito dal legislatore.

Le spese legali per i morosi vanno anticipate dal condominio

Il «sollecito» a chi non paga completamente e puntualmente le spese è una prassi frequente, che ormai si è fatta frequentissima. Ma, nonostante l’indulgenza che si può avere per il vicino, bisogna rendersi conto che ha un costo.

In questi casi infatti, comunemente, l’amministratore si rivolge a un avvocato di fiducia, che con la sua opera riesce ad ottenere il pagamento dei debiti dai condòmini inadempienti.

Nel migliore dei casi il condomino debitore, ricevuta la lettera dell’avvocato, deciderà di pagare subito il suo debito evitando ulteriori attività legali.

Nel caso in cui questi non pagasse in via stragiudiziale, tuttavia, l’avvocato sarà costretto ad agire in giudizio per ottenere la condanna del condomino al pagamento di quanto ancora dovuto.

Al termine del proprio mandato, comunque, l’avvocato consegnerà all’amministratore la fattura per le proprie prestazioni professionali stilata sulla base dell’attività svolta.

Chi paga la parcella

È lecito domandarsi se questa parcella debba essere pagata dal condominio nel complesso o solamente dai condomini morosi, tenendo indenni dal pagamento delle spese legali i comproprietari che avendo pagato puntualmente non hanno reso necessaria l’attività dell’avvocato.

Per quanto possa sembrare paradossale, l’amministratore dovrà, in prima battuta, pagare la parcella del legale con i fondi del conto corrente condominiale e quindi con denaro anche dei condòmini in regola con il pagamento delle spese. Anche questa, infatti, rientra nelle spese necessarie per il mantenimento della cosa comune, così come indicate nell’articolo 1123 del Codice civile. Si può dire, infatti, che tali spese siano impiegate dal palazzo al fine di assicurare il buon andamento della propria situazione finanziaria e quindi, nel lungo termine, mirino al benessere di tutti i condòmini. Inoltre è un preciso dovere dell’amministratore di condominio ottenere il pagamento dei contributi necessari al mantenimento dello stabile.

Comunque, una volta saldate le spese legali, l’amministratore dovrà poi inserirle come «addebito personale» nel consuntivo condominia, addebitandole ai morosi.

Le altre strade

Esistono però dei temperamenti a questo principio. Occorre in prima battuta specificare che, qualora il condòmino moroso si sia rifiutato di pagare prima del processo e l’avvocato abbia instaurato la causa, il giudice potrà provvedere nella stessa sentenza a condannare il debitore a pagare le spese legali direttamente al difensore del condominio. In questo modo l’amministratore non dovrà anticiparle.

Inoltre, ai sensi dell’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice civile, il creditore del condominio deve in via preventiva escutere i condòmini morosi: «I creditori non possono agire nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condòmini». In caso di mancato pagamento dell’avvocato del condominio, quindi, questi richiederà all’amministratore i nominativi dei condòmini non in regola con il pagamento delle spese. Anche se non sarà possibile escutere il singolo condòmino per l’intero debito, ma solo pro quota. Avendo ottenuto un titolo esecutivo valido, poi, l’avvocato potrà mettere in esecuzione la sentenza ottenendo il pagamento coattivo della propria parcella. Arrivando sino a ipotecare l’appartamento del condòmino e addirittura a venderlo all’incanto.

Intercapedine: proprietà e pertinenza

Per stabilire a chi appartiene l’intercapedine tra una proprietà e l’altra è necessario, anzitutto, fare riferimento dell’atto di trasferimento della proprietà dell’unità immobiliare, poi al regolamento di condominio e, infine, all’utilità che un condomino può trarre dalla stessa, in base alla sua destinazione strutturale o funzionale.

In un caso sottoposto di recente all’attenzione della Corte di cassazione (sentenza n. 13295/2015) un condòmino del primo piano ne aveva citato in giudizio un altro soprastante, accusandolo di aver trasformato il tetto in un lastrico solare, creando, così, una servitù di luce e di veduta oltre ad aver fatto passare nel doppio soffitto (intercapedine) di sua proprietà, i tubi di scarico di cui chiedeva, pertanto, la rimozione. Il Tribunale respingeva la domanda mentre la Corte d’appello dava ragione al ricorrente e condannava il condòmino del piano di sopra a rimuovere le tubature . Per i giudici il condòmino, per mantenere i tubi, avrebbe dovuto dimostrare di essere proprietario del «vano tecnico» (cioè intercapedine) – dal momento che l’atto di acquisto nulla diceva a riguardo – o che fosse titolare di un diritto di servitù o che potesse avvalersi dell’usucapione. Ma la dimostrazione non era stata data.

Investita della questione, la corte di Cassazione, per stabilire a chi appartenesse l’intercapedine, ha preliminarmente richiamato l’attenzione sul concetto di pertinenza in base all’articolo 817 del Codice civile: « (…) in una cosa accessoria asservita funzionalmente ed in maniera durevole all’utilità o ad ornamento di un’altra cosa principale ed è caratterizzata da due elementi uno soggettivo e l’altro oggettivo».

Dal punto di vista soggettivo è necessario che la pertinenza sia asservita, per volontà del proprietario della cosa principale, in un rapporto funzionale con quest’ultima ovvero a servizio o ad ornamento della stessa. Ciò premesso, considerato che i titoli di proprietà delle parti non facevano alcun riferimento a tale vano tecnico e che la consulenza tecnica d’ufficio aveva constatato che l’intercapedine in questione aveva la funzione di isolare e proteggere l’appartamento collocato al primo piano, sussisteva effettivamente un rapporto funzionale tra l’intercapedine e l’appartamento.

Solo dopo questa analisi la Corte è riuscita a stabilire che quel vano tecnico (l’intercapedine risultato di una controsoffittatura dell’altezza di m.1,30) aveva la funzione di isolare l’appartamento al piano di sotto e che, pertanto, apparteneva al proprietario di quest’ultimo perché ne traeva il maggior beneficio.