Condominio parziale: Commento a Cass. II, Ord. n. 13229 del 16 maggio 2019

Condominio parziale: il riparto delle spese di ricostruzione di un solo corpo di fabbrica e di condanna al risarcimento dei danni sono a carico dei soli condomini proprietari di immobili cui il bene comune serve anche se la sentenza è emessa nei confronti del condominio generalmente inteso.

Commento a Cass. II, Ord. n. 13229 del 16 maggio 2019. [Prof. Avv. Rodolfo Cusano – Avv. Amedeo Caracciolo]

Premessa

Al fine di analizzare l’interessante arresto giurisprudenziale cui giunge la II sezione della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13229 del 16 maggio 2019 in tema di condominio parziale, è opportuno prendere le mosse dal dato normativo. Premesso il disposto di cui all’art. 1117 c.c. che elenca, salvo titolo contrario, le parti comuni dell’edificio, la norma-cardine in tema di condominio parziale è l’art. 1123 c.c. 3 comma.

Tale norma, pur intitolata alla “ripartizione delle spese” stabilisce espressamente:

Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità”.

Quindi, il presupposto per l’attribuzione in proprietà comune a tutti i condomini viene meno se le cose, gli impianti e i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l’esistenza o per l’uso (ovvero siano destinati all’uso o al servizio) di alcuni soltanto dei condomini (cfr. Trib. Salerno sent. 1517/2015; Cass. civ. II, n. 1680/2015).

Le conseguenze di ciò si riverberano anche nella gestione del fabbricato, nella ripartizione delle spese e consistono nel fatto che ogni atto ed ogni attività di amministrazione e/o di utilizzazione devono essere compiuti all’interno del condominio parziale, escludendo dai partecipanti quelli che sono proprietari di immobili che non godono di quel servizio o impianto, non ricevendo dallo stesso alcuna utilità.

A conferma di quanto sopra anche l’art. 1136 c.c. (“costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni”), che al penultimo comma, stabilisce: “l’assemblea non può deliberare se non consta che tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati”. Mentre, antecedentemente alla Riforma, si faceva riferimento ai “condomini”, oggi attraverso la dicitura degli “aventi diritto” il legislatore ha adeguato l’impianto finendo così per riconoscere anche legittimità delle assemblee del “condominio parziale”.

La previsione di cui all’art. 1117 c.c. ed il suo coordinamento con l’art. 1123, 3 comma c.c.

In primo luogo si deve constatare che la legge si riferisce esplicitamente a beni comuni a tutti i condomini «se il contrario non risulta dal titolo» ex articolo 1117 c.c. Ciò vuol dire che esiste una sola eccezione per la quale i beni non sono comuni a tutti i condomini: la volontà contraria contenuta nel titolo di acquisto. Questa osservazione potrebbe sembrare sterile se il suo carattere formalistico non fosse convalidato da un ulteriore rilievo pratico e sostanziale: il motivo per cui i beni sono comuni anche a quei condomini che non li utilizzano risiede nel fatto che quei beni partecipano di un edificio unico che è, appunto, il condominio.

Il destino comune dei beni viene supportato dall’unità dell’edificio cui partecipano tutti i proprietari in virtù della loro ulteriore qualifica di condomini. In questa prospettiva il criterio di utilizzabilità non viene affatto preso in considerazione dalla legge per determinare la contitolarità dei beni di cui all’articolo 1117 c.c., per cui, se ci fermassimo nella nostra analisi, tali beni sarebbero comuni a tutti a prescindere dal loro utilizzo ed anche nel caso vi fosse un utilizzo solo da parte di alcuni.

In realtà è vero che il citato articolo 1117 c.c. non consente esplicitamente che la proprietà dei beni sia comune solo ad alcuni condomini però, a ben guardare, nemmeno lo vieta espressamente; tale possibilità è ammessa sulla base di una convenzione ma non si può escludere che il criterio dell’utilizzabilità (e quello correlato dell’utilità) non sia richiamato dall’articolo 1117 c.c. (in quanto sottinteso da quella normativa).

Il legislatore, allora, non ha esplicitamente dichiarato che il condominio riguarda solo coloro ai quali i beni servono perché tale stato di fatto rappresenta una condizione necessariamente preesistente all’operatività della norma, cioè essa è presupposta sulla base della logica determinazione dei fatti e dei conseguenti effetti che si verificano in questi casi.

Questo sembra essere il ragionamento che sta alla base dell’opinione per cui: «I presupposti per l’attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero sono destinati all’uso o al servizio, non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Pertanto, del diritto soggettivo di condominio formano oggetto soltanto i servizi e gli impianti effettivamente legati alle unità abitative dal collegamento strumentale; vale a dire le sole parti di uso comune che siano necessarie per l’esistenza, ovvero siano destinate all’uso o al servizio di determinati piani o porzioni di piano».

La Cassazione (sent. n. 7885/1994) determina anche il motivo specifico di tale conclusione: «La disposizione da cui risulta con certezza che le cose, i servizi e gli impianti di uso comune dell’edificio non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti, si rinviene nell’art. 1123, comma terzo, c.c. Secondo questa norma, l’obbligazione di concorrere nelle spese per la conservazione grava soltanto sui condomini, ai quali appartiene la proprietà comune».

In realtà se si legge il comma in questione1 non si evince affatto quanto affermato dalla Cassazione, poiché viene disciplinato il criterio di spesa in base al criterio di utilità, per cui ad un primo esame, sembrerebbe che questa norma non disciplini affatto la parzialità della titolarità. Infatti, ben potrebbe intendersi nel senso che le spese sono sopportate dai condomini che ne traggono utilità ma la proprietà resta comunque in capo a tutti i condomini, anche a quelli che non usano i beni in oggetto, così come stabilito dal principio generale di sui all’articolo 1117 c.c.

È la stessa Cassazione che risponde al quesito sottolineando come il terzo comma dell’art. 1123 «non recepisce il criterio, che si assume valido in generale per la ripartizione delle spese per le parti comuni, secondo cui i contributi si suddividono tra i condomini in ragione dell’utilità. Se così fosse, il precetto sarebbe del tutto superfluo, perché ripeterebbe quello dettato dal capoverso precedente» tanto è vero che: «Posto che l’art. 1123 comma terzo ripartisce il concorso nelle spese per le parti comuni, destinate a servire le unità immobiliari in misura diversa, in proporzione all’uso che ciascuno può farne, dal contributo implicitamente esonera coloro i quali, per ragioni obbiettive afferenti alla struttura o alla destinazione, non utilizzano le parti, che non sono necessarie per l’esistenza o per l’uso, ovvero non sono destinate all’uso o al servizio dei loro piani o porzioni di piano. Se i proprietari delle unità immobiliari, non collegate con determinate parti comuni, fossero esonerati dal concorso nelle spese in virtù del criterio dell’utilità statuito dall’art. 1123 comma secondo c.c., il disposto dell’art. 1123 comma terzo sarebbe del tutto identico a quello fissato nel comma precedente e configurerebbe un duplicato inutile».

È questa un’interpretazione che collega funzionalmente le diverse parti di una norma in maniera esemplare per arrivare ad identificare una eadem ratio che sottende l’intero dettato normativo ed il ragionamento viene spiegato in questo modo: « In realtà, l’art. 1123 c.c. nei distinti capoversi contempla ipotesi differenti. Mentre al comma due regola solo ed esclusivamente la ripartizione delle spese per l’uso, al comma tre disciplina la suddivisione delle spese per la conservazione. La ragione della previsione espressa è che le cose, i servizi e gli impianti, essendo collegati materialmente e per la destinazione soltanto con alcune unità immobiliari, appartengono in comune solamente ai proprietari di queste. La disposizione, cioè, contempla l’ipotesi di condominio parziale».

Come si vede la Cassazione fa discendere esplicitamente dall’articolo 1123 c.c. III comma, la previsione legislativa del condominio parziale il quale deve essere ammesso, non solo in base ai ragionamenti effettuati dalla Suprema Corte, ma anche in base al dato incontestabile che dalla legge non risulta alcun esplicito divieto di costituzione del condominio parziale e che il condominio parziale risulta essere una fattispecie che realizza interessi meritevoli di tutela alla stregua dei principi del nostro ordinamento giuridico.

Il caso affrontato dalla Cassazione

La fattispecie oggetto di analisi da parte della Suprema Corte attiene al riparto delle spese di risanamento di alcuni pilastri di un complesso immobiliare costituito da tre corpi di fabbrica separati da giunti tecnici. Siamo, quindi, in presenza di tre fabbricati distinti tra di loro per tipologia costruttiva e che a loro volta danno luogo a tre distinti condomini. Invero, il nesso di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive sia estese in verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (cd. “condominio orizzontale”).

Ora, con riferimento al caso in commento, veniva impugnata una delibera assembleare che approvava la ripartizione delle spese – effettuata in base ai millesimi di proprietà generale dell’intero complesso edilizio – per il risanamento di alcuni pilastri posti al di sotto di in solo corpo di fabbrica.

La Cassazione, dopo aver delineato caratteri, presupposti, contenuto e limiti dell’istituto del condominio parziale, conferma la validità, per questo singolo caso concreto, della ripartizione effettuata per tabella generale di proprietà relativa a tutte e tre i fabbricati.

Ed infatti, seguendo gli accertamenti cui si era pervenuti in sede dei giudizi di merito, a dare prova della corretta ripartizione era proprio la circostanza che i pilastri pur risultando strutturalmente portanti per un solo corpo di fabbrica essi sostenevano non solo l’edificio sovrastante ma anche altri elementi comuni a tutti gli altri edifici (nel caso de quo un camminamento su porticato esterno condominiale). Diversamente, ove detti pilastri avessero avuto la funzione di servire solo il relativo corpo di fabbrica, il riparto delle spese per gli interventi di consolidamento avrebbe dovuto essere improntato al differente criterio di cui al terzo comma dell’art. 1123 c.c. 3° comma. Ciò in ossequio al principio di cui all’istituto del condominio parziale.

Oneri condominiali – Prescrizione

La mancata impugnativa del rendiconto comporta il pagamento anche degli oneri condominiali arretrati ivi indicati e già prescritti –  Commento a Cass n.  27849/2021

La fattispecie esaminata dal Supremo Consesso ha notevole importanza nell’ambito delle obbligazioni condominiali, ed ha a riferimento una causa di opposizione a Decreto ingiuntivo per oneri condominiali,  approvati  su rendiconto che riportava anche i crediti relativi ad anni pregressi e  per i quali a dire dell’opponente era già maturata la prescrizione.

L’appello era stato già respinto perché il Tribunale di Genova aveva rilevato: che era pur vero che la delibera di approvazione delle spese era riferita a gestioni precedenti al 2017, ma che essa non era stata impugnata. Secondo detta sentenza (di II grado) in mancanza di impugnativa nessuna contestazione poteva più essere mossa al consuntivo che conteneva l’indicazione delle causali delle spese anche con riferimento alle gestioni pregresse.

Quasi pedissequamente ha avuto a disporre la sentenza in rassegna. Essa ha, quindi, il notevole pregio da un lato di aver dato certezza alla problematica non certo facile, dall’altro di costituire una vera e propria arma in mano agli amministratori che, a scanso di proprie responsabilità, potranno semplicemente riportare ogni anno nel rendiconto anche il dovuto per ogni moroso indicandone la causale.

La sentenza della Suprema Corte ha anche il pregio di  aver precisato le caratteristiche che deve avere questa approvazione: “ Va ribadito che il consuntivo per successivi periodi di gestione che, nel prospetto dei conti individuali per singolo condomino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative ad annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi dell’art. 1137 c.c., costituendo altrimenti esso stesso idoneo titolo del credito complessivo nei confronti del singolo partecipante, pur costituendo “un nuovo fatto costitutivo del credito” stesso (cfr. Cass. 4489/2014; Cass. 20006/2020).

In tale caso vige il principio che, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, concernente il pagamento dei contributi per spese, il condominio soddisfa l’onere probatorio su di esso gravante con la produzione del verbale di assemblea condominiale con cui siano state approvate le spese, nonché dei relativi documenti (Cass. 7569/1994).”

Ciò porta a ritenere, in armonia con quanto indicato nella sentenza, che la delibera di approvazione costituisce il titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo ma anche la condanna del condomino a pagare le somme: laddove l’ambito dell’opposizione è ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza e validità della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere (Cass. SS.UU. 26629/2009; Cass. 5254/2011; Cass. 4672/2017).

SUGGERIMENTO

Un consiglio molto utile agli amministratori diventa conseguenzialmente quello di riportare in ogni consuntivo l’indicazione di tutte morosità (anche quelle pregresse) con le relative causali e l’imputazione al singolo condomino. Si suggerisce anche di indicare nella relazione illustrativa che: “per detti crediti si fa espressamente richiesta di pagamento e che la presente richiesta è valida anche ai fini interruttivi della prescrizione”.

 L’indirizzo, ormai costante potremmo dire anche per l’applicazione che oggi ne danno i giudici di merito (per tutti vedi il Tribunale di Roma di seguito meglio indicato), è quello che la delibera di approvazione del rendiconto è munita della forza propria degli atti collegiali ai sensi del I comma dell’art. 1137 c.c. (Cass. 4306/2018) per cui da ciò discende l’insorgenza e quindi anche la prova dell’obbligazione in base alla quale ciascuno dei condomini è tenuto a contribuire alle spese ordinarie per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni dell’edificio (Cass. 11981/1992).

A dare conferma a tale indirizzo è stato il Tribunale di  Roma con la recente sentenza n. 8724 del 17.6.2020, con cui si è ritenuto che: se è evidente che non può ritenersi viziato un rendiconto che riporti un credito verso un condominio di cui non è già maturata la prescrizione, non può dirsi altrettanto se la prescrizione sia già maturata ed il condomino interessato intenda farla valere: altrimenti il rendiconto riporterebbe, in modo oggettivamente inveritiero, un credito non più esistente”.

Per completezza di disamina dobbiamo anche ricordare che il rendiconto condominiale ” funge contemporaneamente da atto riepilogativo della situazione finanziaria del condominio e da elemento di un vero e proprio “negozio con funzione ricognitiva della situazione preesistente, cioè dell’esecuzione del mandato, e costitutiva di un’attuale obbligazione diretta a definire un regolamento d’interessi” collegato con il preesistente rapporto gestorio. Sotto il primo aspetto, la deliberazione assembleare di approvazione ha un valore ricognitivo e conformativo, mentre, sotto il secondo aspetto, costituisce approvazione del rendiconto, reso dal mandatario amministratore, del proprio operato gestorio (Trib. Roma sez. V, 30/04/2019, n. 9011).

Se a ciò si aggiunge che come già prima abbiamo detto, nulla vieta all’amministratore, entro il termine di prescrizione delle spese condominiali, di convocare l’assemblea per l’approvazione di un nuovo stato di riparto, comprensivo di tutte le quote scadute pregresse dovute dai condomini, tale che anche i saldi degli esercizi precedenti entrano a far parte di un unico rendiconto che qualora riporti anche crediti prescritti, se contestato dal singolo condomino, va impugnato nei termini di cui all’art. 1137 c.c. (Trib. Napoli sez. IV, 03/10/2019, n. 8712), altrimenti esso stesso rendiconto costituisce la prova del dovuto per tutti gli anni ivi indicati.

Una possibilità in meno di sottrarsi al pagamento per i condomini morosi.

Portierato, le attività extra si pagano a parte: condannato un condominio

Per le attività extra fatte svolgere al portiere scatta l’indennità di servizio. Così un condominio è stato condannato a versare 52mila euro al dipendente. Lo ha sancito il Tribunale di Palermo con la sentenza 2648 del 18 luglio scorso.

Il portiere dello stabile aveva chiesto la condanna del condominio al pagamento di 65.557,50 euro, oltre ad accessori come per legge, a titolo di differenze retributive e, in particolare, di ratei ferie, ratei tredicesima mensilità, ex festività e permessi non goduti, straordinario ed indennità supplementari (vani, ascensore, ufficio, citofono, pulizia piani, scale, contributo energia elettrica, caldaia, esazione quote condominiali, ritiro raccomandate, apertura e chiusura portone, reperibilità ed autoclave).

Gli esperti de Il sole 24 Ore, commentando la sentenza, invitano a riflettere sulle tante e diverse tipologie contrattuali che possono essere utilizzate per assumere un portiere, stando al contratto collettivo nazionale siglato dalle associazioni di categoria. Le figure professionali dei lavoratori, in particolare, ai quali si applica il contratto sono addetti alla vigilanza, custodia, pulizia e mansioni accessorie degli stabili adibiti ad uso di abitazione o ad altri usi. Se poi l’attività svolta dal portiere richiede particolari capacità, specializzazioni, licenze, autorizzazioni, il lavoratore ne deve essere in possesso. Secondo il contratto nazionale si possono assumere lavoratori ad esempio con mansioni di operaio specializzato, per la manutenzione degli immobili, degli impianti ed apparecchiature in essi esistenti o che di essi costituiscono pertinenza oppure assistenti bagnanti nelle piscine condominiali o che prestano la loro opera per la pulizia e/o conduzione dei campi da tennis e/o piscine e/o spazi a verde e/o spazi destinati ad attività sportive e ricreative in genere, con relativi impianti.

La classificazione dei lavoratori prevista dal contratto collettivo (articolo 17) prevede anche la figura di portieri con funzioni amministrative: quadri che operano in amministrazioni di adeguate dimensioni, con struttura operativa anche decentrata, e con alle proprie dipendenze impiegati oppure impiegati con responsabilità di direzione esecutiva, che sovraintendono all’intera amministrazione dello stabile o a una funzione organizzativa di rilievo, con carattere di iniziativa e di autonomia operativa nell’ambito delle responsabilità loro delegate.

Ciò posto, la prima questione sottoposta al Tribunale di Palermo riguardava l’esatto inquadramento del portiere a fronte della contestazione mossa dal condominio, rispetto l’entità dei servizi da lui svolta durante la pendenza del rapporto contrattuale. Il corretto inquadramento del portiere dipendeva dallo svolgimento da parte di quest’ultimo del compito di pulizia dello stabile (le categorie di cui all’articolo 15 del contratto); il giudice, pertanto, attraverso l’analisi del compendio probatorio in atti, ha proceduto ad un inquadramento contrattuale nell’ambito della categoria A4, ovvero portieri che prestano la loro opera per la vigilanza, la custodia, la pulizia e le altre mansioni accessorie degli stabili, fruendo di alloggio. Così configurato dal punto di vista contrattuale il rapporto tra portiere e condominio, il giudice palermitano ha riconosciuto la sussistenza del diritto del lavoratore a percepire le indennità di servizio ulteriori a fronte dell’attività materialmente svolta in favore dei condòmini: indennità per numero di vani; indennità per ascensore; indennità per ufficio; indennità citofono; indennità pulizia piani; indennità scale; indennità contributo energia elettrica; indennità caldaia; indennità esazione quote condominiali; indennità ritiro raccomandate; indennità apertura e chiusura portone; reperibilità ed autoclave.

Alla stregua di quanto sopra, il giudice – avvalendosi anche di una consulenza tecnica d’ufficio contabile – ha disposto la condanna del condominio-datore di lavoro ad una somma di oltre cinquantaduemila euro, di cui quarantamila euro circa per differenze retributive ed euro diecimila per saldo Tfr, il tutto oltre ad accessori nella misura legalmente dovuta da ciascun rateo fino al saldo.