Il condominio ripara la facciata ma non risarcisce le infiltrazioni in casa dovute alla condensa

Inutile insistere per il proprietario esclusivo: la manutenzione non avrebbe evitato le macchie di umidità che hanno cause naturali, mentre l’ente di gestione ha rimediato alle vecchie fessurazioni

Non è risarcito il proprietario dell’appartamento se dalla Ctu disposta emerge che le cause delle infiltrazioni di umidità sono naturali (condensa) e anche con un intervento del condominio (tinteggiatura dei vani interessati) il problema permane. Lo ha sancito la Cassazione con l’ordinanza 15615/17, depositata il 22 giugno dalla sesta sezione civile.
Piazza Cavour dichiara inammissibile di una coppia di coniugi che citava in giudizio il condominio chiedendo i danni per le infiltrazioni di umidità che avevano raggiunto il loro appartamento. Il tribunale, in base a quanto determinato dalla Ctu, rilevava che la ragione delle infiltrazioni era da attribuire a «cause endogene (condensazione)» e solo in minima parte alle micro-fessure presenti nelle pareti esterne della facciata condominiale e, pertanto, condannava il condominio a eseguire i lavori indicati, rigettando nel resto la domanda. A differenza del primo giudice, la Corte di appello escludeva la responsabilità del condominio e le pretese risarcitorie; Piazza Cavour si allinea alla decisione di merito. La Cassazione rileva che sebbene il giudice abbia utilizzato l’espressione «concause», facendo riferimento agli esiti della Ctu, ha attribuito un significato diverso da quello preteso dai ricorrenti, vale a dire che, «piuttosto che un concorso di cause produttive di un unico danno», il giudice ha ritenuto che solo una parte dei danni lamentati fossero riconducibili alla responsabilità del condominio, mentre per altri ha reputato che «la causa è consistita in un fatto naturale» e che, dunque, si sarebbero verificati anche con la manutenzione del condominio alla facciata. La Cassazione, così come la Corte territoriale, esclude che questi ultimi danni possano essere risarciti dal condominio. Il collegio dichiara inammissibile il ricorso.

Il compenso dell’amministratore si deve adeguare in caso di lavori imprevisti

Sempre nuovi obblighi per l’amministratore di condominio. E a questo punto è meglio riflettere sulla correttezza della tesi per la quale l’emolumento dell’amministratore, quale proposto e accettato esplicitamente in occasione di ogni nomina e rinnovo dell’incarico, sia destinato a rimanere invariato qualunque cosa accada. A partire dalle recenti e pesanti incombenze verso l’agenzia delle Entrate (comunicazione delle quote di spesa fiscalmente detraibile imputate ai singoli condòmini), certamente non previste all’atto della nomina.

Occorre che tali attività abbiano adeguato compenso (ovviamente non compreso nell’emolumento stabilito quando le incombenze non erano apparse all’orizzonte), calibrato rispetto all’emolumento già fissato e all’impegno richiesto. Comunque inquadrato, il rapporto tra amministratore e condominio comporta che una parte (il condominio, per il quale parla l’assemblea) acquisisca il diritto di esigere una serie di prestazioni che devono essere espletate dall’amministratore, il quale a sua volta e simmetricamente acquisisce il diritto all’emolumento.

Un compenso extra per attività non prevista e introdotta da una nuova normativa appare del tutto naturale e non contrasta affatto con gli interessi degli stessi amministrati, che del resto pochissimo lucrerebbero lasciando interamente sulle spalle del loro rappresentante le conseguenze di una novità voluta dal legislatore.

Del resto l’ordinamento giuridico contiene una serie di norme che mirano alla salvaguardia degli atti giuridici e che consentono che l’attività negoziale voluta dai soggetti privati abbia efficacia, seppure con modeste modificazioni, quando sia l’attività che le modificazioni possano essere fatte rientrare nei canoni della legalità.

Il Tribunale di Roma (sentenza 4 luglio 2011) ha stabilito che i contratti di durata continuano ad essere rispettati ed applicati dai contraenti sino a quando le condizioni ed i presupposti di cui hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio rimangono intatti. Al contrario, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, con la conseguenza che qualora la controparte non accetti alcuna proposta di modifica, il contratto potrà essere risolto per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Si possono ricordare anche gli articoli 1659, 1660, 1661 e 1664 del Codice civile, tutti in tema di appalto e tutti coerenti nel prevedere la possibilità di modificare il contenuto del contratto per effetto del configurarsi di particolari previsioni.

In ogni caso, in tema di professioni intellettuali l’articolo 2233 disciplina il compenso dovuto al professionista e prevede che se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione. Non solo: il comma XV dell’articolo 1129 del Codice civile, che parla del compenso dell’amministratore, prevede che «per quanto non disciplinato dal presente articolo si applicano le disposizioni di cui alla sezione I del capo IX del titolo III del libro IV», cioè la norme sul mandato. E queste prevedono che «il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni, con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte, e deve pagargli il compenso che gli spetta. Il mandante deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subiti a causa dell’incarico».

Il condomino può distaccarsi dall’impianto centralizzato pur in presenza di un regolamento contrattuale che lo vieta

Sentenza Cassazione 11970, sezione Seconda Civile del 12-05-2017

E’ legittima la rinuncia di un condomino all’uso dell’impianto centralizzato di riscaldamento – anche senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condomini – purché l’impianto non ne sia pregiudicato, con il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123, secondo comma, cod. civ., dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato; in tal caso, egli è tenuto solo a pagare le spese di conservazione dell’impianto stesso. Né può rilevare, in senso impediente, la disposizione eventualmente contraria contenuta nel regolamento di condominio, anche se contrattuale, essendo quest’ultimo un contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell’ordinamento. Deve quindi ritenersi che la condivisibile valutazione di nullità della clausola regolamentare impeditiva del distacco del singolo condomino, si estenda anche alla correlata previsione che obblighi il condomino al pagamento delle spese di gestione malgrado il distacco, dovendosi ragionevolmente sostenere che la permanenza di tale obbligazione di fatto assicuri la sopravvivenza della clausola affetta da nullità, impedendo il prodursi di quello che è il principale ed auspicato beneficio che il condomino intende trarre dalla decisione di distaccarsi dall’impianto comune.

Regolamento condominiale (destinazione d’uso appartamenti in condominio)

Nel caso in cui il regolamento condominiale preveda che un appartamento possa essere destinato esclusivamente ad abitazione, studio professionale o ufficio privato, non è possibile adibirlo ad altre destinazioni, neanche a una casa-famiglia.

Non importa che il proprietario, unico interessato, abbia già ottenuto tutte le autorizzazioni amministrative necessarie a tal fine: per il Tribunale di Catania la residenza per anziani può essere aperta solo con l’autorizzazione aggiuntiva dei condomini.

La casa-famiglia, del resto, non può essere in nessun modo paragonata a una civile abitazione: le sue caratteristiche e la necessità aggiuntiva di un ambulatorio specializzato incrementano, infatti, l’affluenza sia nell’edificio che, soprattutto, nei parcheggi.

A precisarlo è la sentenza numero 4976/2015 della terza sezione civile: l’attività del proprietario dell’appartamento deve essere necessariamente approvata dall’assemblea condominiale con la maggioranza di cui al secondo comma dell’articolo 1136 del codice civile, ovverosia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio.

Il giudice siciliano, a sostegno delle sue conclusioni, sottolinea, peraltro, che il regolamento condominiale che dispone la limitazione della destinazione dell’edificio ha natura contrattuale in quanto è stato allegato al rogito e richiamato in esso.

Esso, poi, non può essere sottoposto ad alcuna interpretazione estensiva, nonostante non ponga alcun espresso divieto di casa-famiglia.

Insomma: il condomino deve rassegnarsi. La sua iniziativa non può proseguire se gli altri condomini non sono d’accordo.

Il condomino non può impugnare la delibera che vieta all’altro il secondo ingresso sul pianerottolo

Il regolamento ha natura contrattuale e vieta ogni innovazione sulle cose comuni: proprietario esclusivo non legittimato perché la decisione non può assurgere ad atto normativo valido verso tutti

Il condomino non ha interesse a impugnare la delibera assembleare che vieta all’altro proprietario di aprire un secondo ingresso di accesso sul pianerottolo. La natura pattizia del regolamento condominiale vieta qualsiasi innovazione alle cose comuni, a eccezione delle modifiche sulle strutture secondarie degli edifici. È quanto ha stabilito la seconda sezione civile della Cassazione con la sentenza 12420/17, pubblicata il 17 maggio.
Gli “ermellini” rigettano il ricorso di un condomino che impugna, al fine di farla annullare, una delibera assembleare con cui era stato vietato a un altro proprietario di realizzare un secondo accesso sul pianerottolo di casa. Dopo il rifiuto all’autorizzazione, il proprietario accetta la decisione dell’assemblea, al contrario del ricorrente che si gioca la carta dell’impugnazione per «veder rimosso un deliberato che avrebbe potuto essergli opposto in futuro nell’ipotesi di apertura del medesimo». La Cassazione non accoglie il ricorso, posto la carenza di interesse a impugnare.
La sentenza della Corte di appello ha ritenuto, in conformità al giudice di prime cure, «la natura pattizia della disposizione regolamentare, tesa a vietare “qualunque modifica o innovazione alle cose comuni, anche se in corrispondenza delle singole proprietà individuali”, fatte salve solo modifiche o innovazioni inerenti strutture secondarie degli edifici». La norma regolamentare condominiale ha natura contrattuale e dalla quale discende «l’imposizione di un vero e proprio onere reale al diritto del singolo cui poteva derogarsi solo con la procedura autorizzativa prevista». Ritornando al caso di specie, non c’era alcun interesse ad agire in relazione all’impugnazione della delibera relativa al rigetto dell’istanza autorizzativa per l’apertura di un altro ingresso «non degli odierni ricorrenti e del loro dante causa, ma di altra e terza condomina». Pertanto – conclude il collegio – poiché le delibere assembleari condominiali in materia, «non possono assurgere mai ad atti normativi generali valevoli per qualunque condomino, in modo immodificabile e per qualunque tipo di autorizzazione è evidente la rilevata carenza di interesse». La Corte suprema rigetta il ricorso.

Delibera valida perché basta fissare un giorno per consentire ai condomini di vedere la contabilità

La prescrizione di carattere organizzativo e non contrattuale che obbliga l’amministratore non solo a trasmettere copia dei rendiconti ai condomini prima della riunione ma a fissare anche un giorno specifico, per consentire di visionare la contabilità e di farne a proprie spese una copia, previo appuntamento telefonico, non infrange alcuna norma del codice civile e del regolamento condominiale. Tale prescrizione non contrasta col principio di correttezza e, anzi, obbliga l’amministratore a predisporre un’organizzazione che consente ai condomini di accedere alla contabilità, ma senza che la facoltà «paralizzi il normale svolgersi dell’attività di gestione condominiale». La delibera condominiale adottata secondo questa interpretazione del regolamento non potrà essere annullata. Lo ha stabilito la Cassazione che, con l’ordinanza 12579/17, pubblicata oggi dalla sesta sezione civile, boccia il ricorso di una condomina che impugnava una delibera assembleare per ottenerne l’annullamento.
Oggetto della disposizione condominiale le copie di preventivi e dei rendiconti da trasmettere, a opera dell’amministratore, a ogni condomino almeno dieci giorni prima del giorno fissato per la riunione e la tenuta della contabilità da far visionare, nello stesso periodo, ai condomini. Secondo il tribunale che accoglieva la richiesta, la delibera andava annullata, ma la Corte di appello rilevava tuttavia che la disposizione del regolamento era stata interpretata da tutti gli amministratori che si erano succediti correttamente, i quali avevano fissato, nell’avviso di convocazione dell’assemblea, un giorno per consentire a tutti i proprietari di prendere visione della contabilità, previo appuntamento telefonico. Nel caso in esame, l’amministratore aveva assolto a tale compito, indicando nell’avviso il giorno preciso in cui era possibile consultare la documentazione, previo appuntamento telefonico, mentre la donna aveva spedito una raccomandata con cui chiedeva copia dei documenti ma che l’amministratore riceveva solo il giorno dell’assemblea. La Cassazione, in linea con la decisione di merito, boccia il ricorso della condomina. Posto che tutti gli amministratori che si erano succeduti nella gestione del condominio avevano adottato tale scelta, poiché si tratta di una prescrizione di «contenuto organizzativo del regolamento di condominio e, non quindi, di contenuto contrattuale, ha certamente rilievo a fini interpretativi (ai sensi dell’articolo 1362, comma 2, Cc), anche il comportamento posteriore al medesimo regolamento avuto dai condomini».
D’altro canto, se è vero che l’articolo 1129, comma 2, Cc, dopo la riforma introdotta con la legge 220/12, prevede «ora espressamente che l’amministratore debba comunicare il locale dove si trovano i registri condominiali, nonché i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta, possa prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia firmata», è anche costante l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «la vigilanza e il controllo, esercitati dai partecipanti essenzialmente, ma non soltanto, in sede di rendiconto annuale e di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, non devono mai risolversi in un intralcio all’amministrazione, e quindi non possono porsi in contrasto con il principio della correttezza». In tal senso, l’interpretazione della Corte territoriale dell’articolo specifico del regolamento è «logicamente coerente con l’esigenza di obbligare l’amministratore a predisporre un’organizzazione che consenta ai condomini il diritto di accedere alla documentazione contabile in vista della consapevole partecipazione all’assemblea condominiale, senza però che l’esercizio di tale facoltà paralizzi il normale svolgersi dell’attività di gestione condominiale».

Diversa ripartizione rispetto alle norme delle spese per il lastrico solare solo con deroga al regolamento

I due terzi degli esborsi a carico non di tutti ma dei proprietari delle singole unità comprese nella proiezione verticale

Solo una deroga al regolamento condominiale può stabilire una diversa ripartizione delle spese per riparare o ricostruire il lastrico solare, rispetto al criterio legale. A sancirlo è la Cassazione con l’ordinanza n. 12578/17, pubblicata oggi dalla sesta sezione civile. A presentare ricorso in sede di legittimità è un condomino che impugna la sentenza della Corte di appello, censurandola sulla ripartizione delle spese per i lastrici solari. Il giudice di seconde cure accollava anche al condomino ricorrente parte degli esborsi sottolineando che i lastrici insistevano su parti di proprietà comune, come la galleria pedonale, la portineria e i piani interrati. Dunque, secondo il ragionamento del giudice del merito, non c’era alcun motivo per cui solo una parte di condomini dovesse farsi carico delle parti che ricadevano nella proprietà comune. Il ricorrente impugna la decisione e ricorre in Cassazione. Per quanto riguarda gli esborsi per riparazioni o ricostruzione dei lastrici, la Corte suprema, con recente sentenza (leggi l’approfondimento “Spese per rifare il lastrico solo a carico del proprietario dell’immobile compreso nella proiezione verticale” del 10 maggio scorso) ha stabilito che i due terzi sono a carico non di tutti i condomini, ma dei proprietari di singole unità comprese nella proiezione verticale del lastrico cui funge da copertura. Ora, l’unico modo per una differente ripartizione delle spese è una deroga al criterio legale. Dal momento che, peraltro, l’articolo 1126 Cc. non è compreso tra le «disposizioni inderogabili richiamate dall’articolo 1138 Cc., certamente il regolamento del condominio può stabilire la ripartizione delle relative spese in modo pattizio, pure ponendo le stesse a carico di tutti i condomini, ma a tal fine occorre che sia adottata una convenzione espressa di deroga al criterio legale». In questo caso, non è una deroga l’articolo 8 del regolamento condominiale cui fa riferimento la Corte d’appello, il quale, «disponendo che le spese per le parti comuni si suddividono in proporzione alla quota millesimale di proprietà di ciascuno, risulta mera traslitterazione dell’art. 1123, comma 1, Cc.». Il collegio cassa con rinvio la sentenza impugnata per un nuovo esame.

Sì ai lavori sulle parti comuni se non toccano la facciata dell’edificio né la privacy del condomino

No alla sospensione della delibera approvata col quorum necessario: manca la prova che un indiscriminato passaggio sulla terrazza di proprietà esclusiva metterebbe a rischio la vita privata

Possono essere eseguiti i lavori di collegamento tra la scala e il sovrastante locale se non comportano sostanziali modifiche sostanziali all’edificio e non compromettono la privacy del singolo condomino. Lo ha sancito il tribunale di Roma con la sentenza 17063/15, depositata dalla quinta sezione. Con la pronuncia, il giudice respinge la domanda del proprietario di un appartamento all’interno di un condominio che impugnava una delibera che stabiliva, con il quorum necessario, l’esecuzione di alcuni lavori di «collegamento tra il corpo scala e il sovrastante locale condominiale». Tali interventi, come sostenuto dal condominio, non risultavano interferire in alcun modo nella sua proprietà, anzi eliminavano di fatto «la servitù aggravante sul terrazzo dello stesso». Alla luce di tali risultanze, il tribunale decide di rigettare la richiesta avanzata dal proprietario esclusivo di sospensione della delibera impugnata per difetto «specifiche modificazioni tali da configurare il pericolo imminente di un danno irreparabile». Il ricorrente non ha dimostrato, infatti, che il lavori comportano sostanziali modifiche al «prospetto dell’edificio e/o invasione indebita nella privacy della propria famiglia attraverso un indiscriminato passaggio sulla terrazza di proprietà e non risultano integrate le responsabilità circa la violazione delle disposizioni in materia di innovazioni da parte del condominio». Quest’ultimo, inoltre, ha rilevato che il ricorrente risulta «servito dalla scala A e che il vano scala B non è di sua proprietà neppure pro quota e che i lavori di progettazione di una scala, partendo non dal terrazzo del ricorrente, ma dall’ultimo pianerottolo della scala B, consentirebbe il libero accesso dei condomini e di eventuali terzi al locale in questione». Pertanto, il giudice rigetta la domanda e dichiara cessata la materia del contendere.

Sì alla telecamera di un privato puntata sulle parti comuni anche senza l’unanimità dei condomini

Videosorveglianza lecita dopo la riforma: riservatezza violata solo se l’obiettivo inquadra porte e finestre. Addio ai vasi sul vialetto che ostacolano l’auto grazie al regolamento di natura contrattuale

Telecamere libere in condominio. È lecito il sistema di videosorveglianza installato dal singolo proprietario esclusivo senza il placet di tutti gli altri anche se l’obiettivo punta anche sulle parti comuni dell’edificio: inutile per la controparte lamentare violazioni della privacy perché il cortile del fabbricato o il relativo accesso non rientrano nei concetti di domicilio e privata dimora in quanto sono destinati a essere utilizzati da un numero indeterminato di soggetti. Ma lo stesso condomino deve rimuovere i vasi che ha piazzato sul vialetto interno se il regolamento condominiale ha natura contrattuale e vieta di occupare stabilmente le parti comuni dell’edificio con oggetti di qualsiasi natura. È quanto emerge dalla sentenza 3977/15, pubblicata dalla quinta sezione civile del tribunale di Roma.

Codice lacunoso
Niente da fare per proprietario e conduttore dell’immobile che vogliono far spegnere l’impianto video installato dal rivale per motivi di sicurezza (si tratta di un’azienda di informatica con sede in un condominio di una zona “in” della Capitale). È vero, le telecamere sono ben sei, delle quali cinque rivolte sulla facciata dell’edificio e un’altra sull’ingresso privato al piano seminterrato. Il Ctu, tuttavia, accerta che l’occhio elettronico inquadra soltanto le finestre di proprietà esclusiva del singolo condomino “blindato”. E in ogni caso, scrive il giudice, è inutile richiamare il codice privacy: nella disciplina c’è un “buco” più volte segnalato dallo stesso Garante perché gli articoli 23 e 24 del decreto legislativo 196/06 subordinano il consenso espresso quando i dati sono destinati alla comunicazione mentre nella specie l’impianto è destinato a scopi personali.

Giurisprudenza disattesa
Ancora. Alcune delle indicazioni provenienti proprio dall’authority non tengono conto della giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudice deve verificare se l’oggetto inquadrato dall’impianto di videoripresa merita la tutela che viene garantita ai luoghi di privata dimora. E l’articolo 1122 ter Cc introdotto dalla riforma del condominio finisce per ritenere, sia pure implicitamente, lecita l’installazione di telecamere puntate sulle parti comuni dell’edificio: si possono dunque configurare legittime limitazioni della privacy anche senza qualche condomino non è d’accordo. La violazione della riservatezza si configura solo se le telecamere risultano puntate su finestre e porte di abitazioni private. Va detto fra l’altro che l’originaria domanda lamenta solo la lesione della riservatezza mentre tardiva è la doglianza per la tutela di beni di proprietà esclusiva connessa alla violazione delle norme sull’uso più intenso della cosa comune dopo l’installazione delle videocamere.

Trascrizione decisiva
Nessun dubbio, invece, che il regolamento condominiale abbia natura contrattuale perché l’atto depositato presso il notaio risulta trascritto presso la conservatoria dei registri immobiliari. Le relative clausole sono dunque opponibili a tutti i proprietari esclusivi e dunque devono essere rimossi i vasi che ingombrano il vialetto e così riducono l’utilizzo degli spazi comuni.

Grazie alla riforma niente fondo cassa per sopperire alle morosità senza l’unanimità dei condomini

Nulla la delibera che motiva l’istituzione per «esigenze contabili» ma punta a risolvere problemi di liquidità. Serve il sì di tutti anche in caso di pignoramento. L’amministratore criticato si giustifichi

Nulla. È inefficace la delibera che senza l’unanimità dell’assemblea costituisce un fondo cassa condominiale «per esigenze contabili» ma in realtà punta a risolvere i problemi di liquidità dell’ente di gestione. E il merito è del nuovo articolo 63 disp. att. Cc secondo cui i creditori del condominio, ad esempio, non possono agire nei confronti dei proprietari esclusivi in regola con i pagamenti senza prima aver escusso senza successo quelli morosi. Lo stabilisce il tribunale di Roma con la sentenza 13857/16, pubblicata dalla quinta sezione civile.

Senza eccezioni
Accolta in parte la domanda dell’ex amministratore e di alcuni condomini suoi congiunti. Stop alla decisione dell’assemblea che dispone di creare un fondo cassa pro quota di 200 euro in due rate, il tutto anche «per il pagamento di fatture». La costituzione del “tesoretto” fra l’altro non viene delibera sulla base dei millesimi danneggiando così i proprietari di unità immobiliari più piccole. E già prima della riforma la giurisprudenza ha chiarito che una siffatta costituzione del fondo cassa equivale a chiedere un ulteriore esborso ai condomini che hanno già pagato le loro quote, chiamandoli a partecipare alle spese in misura non proporzionale al valore delle rispettive proprietà. L’unica eccezione era rappresentata dalla possibilità di approvare il fondo cassa a maggioranza nel caso di azione esecutiva sulle parti comuni ad opera di un creditore del condominio. Oggi senza l’unanimità neppure questo è possibile dopo le modifiche apportate dalla legge 220/12 all’articolo 63 disp. att. Cc.

Obbligo di trasparenza
Non viene risarcita invece l’amministratrice che sosteneva di essere stata fatta segno di attacchi ingiuriosi. Ogni condomino ha diritto di sollecitare il controllo dell’ente gestorio sull’operato del suo rappresentante, a patto di non trascendere in invettive personali. E il carattere fiduciario dell’incarico, oltre che il principio di trasparenza nella gestione, impone all’amministratore di confrontarsi con i condomini e giustificare il proprio operato. Spese di lite compensate.