Decreto ingiuntivo per debiti condominiali: basta una delibera di approvazione del consuntivo

Ogni condòmino che abbia un’esposizione debitoria verso il condominio, si è posto almeno una volta un interrogativo: la delibera che approva il consuntivo da cui emergono tutti i debiti di ciascun partecipante alla cosa comune, può costituire valido titolo per un’azione di recupero crediti? Non è una questione di poco conto: difatti, molti condòmini non attribuiscono la corretta rilevanza giuridica all’approvazione di un bilancio consuntivo; si tende erroneamente a pensare che il consuntivo sia soltanto un rendiconto insuscettibile di confermare la posta di debito di ogni condòmino.

L’iter procedurale

Tale errato convincimento, induce a ritenere che, se il condominio decidesse di agire per il recupero dei crediti maturati verso uno o più condòmini, sarebbe comunque necessario procedere ad individuare e produrre il titolo di credito specifico su cui si fonda la pretesa; si dovrebbe poi recapitare al/ai debitore/i un formale atto stragiudiziale di diffida e messa in mora per interrompere la prescrizione del credito; e solo dopo avere assolto ai passaggi precedenti, si potrebbe legittimamente chiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo. Ebbene, con la recentissima ordinanza numero 27849 del 12 ottobre 2021, la Cassazione, torna su questo tema già oggetto di numerose ed uniformi pronunzie, facendoci comprendere che occorre guardare all’approvazione del consuntivo come ad un atto capace di dare pieno e legittimo fondamento ad un’ingiunzione di pagamento.

Il caso

Un condominio , in persona del suo amministratore, otteneva dal Giudice di pace l’emissione di un decreto ingiuntivo nei confronti di un condòmino debitore di somme per spese condominiali relative a più anni di gestione. Il decreto ingiuntivo veniva concesso sulla scorta della delibera di assemblea con cui erano stati approvati il consuntivo per l’anno 2017 ed il preventivo per l’anno 2018; da precisare che il consuntivo riportava dettagliatamente tutti i debiti rimasti insoluti negli anni precedenti. Il condòmino ingiunto, si determinava a spiegare opposizione, argomentando circa lil fatto che non fosse tenuto a corrispondere alcunché.

Difatti, secondo l’assunto del condòmino, il consuntivo 2017 poteva giustificare soltanto l’emissione di un decreto ingiuntivo volto al recupero di crediti maturati nel corso di quell’anno di gestione, essendo invece necessario fornire altro valido titolo per il recupero del pregresso. Si pronunziava sull’opposizione il Tribunale di Genova, che rigettava ogni richiesta avanzata dal condòmino moroso, adducendo il pieno valore della delibera di approvazione del consuntivo 2017 quale titolo idoneo all’ottenimento di un legittimo decreto ingiuntivo per i debiti antecedenti. Il condòmino, per nulla d’accordo con i giudici, decideva quindi a ricorrere in Cassazione.

Il valore della delibera di approvazione del consuntivo

La Suprema corte a questo punto, osserva come il consuntivo per successivi periodi di gestione che nel prospetto dei conti individuali per singolo condòmino, riporti tutte le somme dovute al condominio, comprensive delle morosità relative alle annualità precedenti, una volta approvato dall’assemblea, può essere impugnato ai sensi dell’articolo 1137 del Codice civile.

Trattasi della norma che disciplina le sorti cui possono andare incontro tutte le deliberazioni adottate dall’assemblea dei condòmini: se uno dei compartecipanti alla cosa comune dissente rispetto alla delibera, ha 30 giorni di tempo (decorrenti dal momento in cui ha avuto conoscenza dell’atto) per ricorrere all’autorità giudiziaria e chiedere che sia pronunziata la sua nullità o annullabilità. Cosa succede, dunque, se il condòmino moroso non impugna il verbale con cui si approva il consuntivo che conferma la sua posta di debito? Ebbene, «il consuntivo approvato e non contestato, costituisce idoneo titolo del credito complessivo nei confronti di quel singolo partecipante, pur non costituendo un nuovo fatto costitutivo del credito stesso» (Cassazione, 7741/2017; Cassazione, 3847/2021; Corte d’appello Milano, 1906/2021).

La delibera condominiale di approvazione, legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condòmino a pagare le somme; difatti, in sede di opposizione, occorre soltanto dimostrare la perdurante esistenza e validità della deliberazione assembleare di approvazione della spesa, e di ripartizione del relativo onere (Cassazione, Sezioni unite, 26629/2009). In buona sostanza, «dall’approvazione del rendiconto annuale dell’amministratore, che è munito della forza vincolante propria degli atti collegiali ai sensi del primo comma dell’articolo 1137 del Codice civile, discende l’insorgenza, e quindi anche la prova, dell’obbligazione in base alla quale ciascuno dei condòmini è tenuto a contribuire alle spese ordinarie per la conservazione e la manutenzione delle parti comuni dell’edificio».

Conclusioni

Tornando al caso di specie, la Cassazione, in perfetta coerenza con tutti i suoi pronunciamenti in argomento, con la sua ultima ordinanza dichiara validissimo e legittimo l’operato del Tribunale di Genova che, rilevando come la delibera di approvazione del consuntivo 2017 non fosse stata impugnata, benché il condòmino moroso fosse presente all’assemblea, ne ha conseguentemente ricavato la corretta deduzione che nessuna contestazione poteva essere sollevata nel giudizio di opposizione, essendosi la delibera ormai perfettamente consolidata. Attenzione, quindi, a dare la giusta rilevanza all’approvazione di un bilancio consuntivo: è sufficiente tale atto per avviare validamente il recupero coattivo dei crediti vantati dal condominio.

La revoca anticipata senza giusta causa e/o rinuncia all’incarico

Quando l’amministratore può chiedere il risarcimento e quando rischia di vederselo domandato?

La deliberazione di nomina seguita dall’accettazione dell’incarico fa sorgere il contratto di mandato che lega la compagine all’amministratore. L’incarico, per espressa previsione legislativa, ha durata annuale e si rinnova automatica per un altro anno (art. 1129 c.c.).

Di fatto una sorta di contratto 1+1 come il più noto 4+4 per le locazioni. Ciò significa che al termine del periodo di gestione il mandatario decade ex lege dal proprio incarico.

 L’Amministratore di condominio e le basi del Mandato

La giurisprudenza ha chiarito che fino alla assemblea successiva assemblea di conferma o revoca, l’amministratore prosegue il proprio incarico nel regime così detto di prorogatio imperii (cfr. Cass. n. 1445 del 1993). L’indicazione giurisprudenziale è stata tradotta in legge ad opera della così detta riforma (cfr. art. 1129, ottavo comma, c.c.).

Si tratta di una sorta di mandato ad interim necessario a garantire la continuità amministrativa del condominio.

Ciò detto è ben possibile che il rapporto giuridico venga interrotto dal condominio prima del termine naturale.

Al riguardo è chiarissimo l’inciso iniziale dell’undicesimo comma dell’art. 1129 c.c. allorquando ricorda che la revoca del mandatario del condominio “?può essere deliberata in ogni tempo dall’assemblea, con la maggioranza prevista per la sua nomina oppure con le modalità previste dal regolamento di condominio”.

Per assurdo, quindi, l’amministratore potrebbe essere revocato anche subito dopo la nomina. È sufficiente farne richiesta nei modi e nei termini di cui all’art. 66 disp. att. c.c. e successivamente deliberarne la revoca con le maggioranze previste dalla legge (art. 1136 c.c.).In questo contesto il riferimento alle modalità regolamentari dev’essere inteso come individuazione di specifiche modalità attinenti al procedimento di convocazione ma non ai quorum o alla possibilità stessa di revocare in ogni tempo il mandatario in quanto l’art. 1129 c.c. è tra quelli assolutamente inderogabili ai sensi dell’art. 1138 c.c..

Rebus sic stantibus, ci si è domandati: la revoca assembleare, il cui effetto sostanziale è quello del recesso anticipato dal contratto, è esercitabile ad nutum o, comunque, dev’essere giustificata per evitare una richiesta di risarcimento del danno? S’è detto che tale rapporto contrattuale è disciplinato dagli artt. 1129-1130 c.c. e dalle norme sul mandato Ebbene, il codice civile parla chiaramente:

La revoca del mandato oneroso, conferito per un tempo determinato o per un determinato affare, obbliga il mandante a risarcire i danni, se è fatta prima della scadenza del termine o del compimento dell’affare, salvo che ricorra una giusta causa (art. 1725, primo comma, c.c.).

In sostanza se è vero che l’assemblea può revocare l’amministratore in qualsiasi momento, è altrettanto vero che la mancanza di una giusta causa alla base deliberazione de quo consente all’amministratore revocato di agire per ottenere il risarcimento del danno.

Questa impostazione ha trovato riscontro in seno alla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Era il 2004 quando è stato affermato che “se la revoca interviene prima della scadenza dell’incarico, l’amministratore avrà diritto alla tutela risarcitoria, esclusa solo in presenza di una giusta causa a fondamento della revoca (art. 1725, co. 1°, cod. civ.).

E deve ritenersi che le tre ipotesi di revoca giudiziale previste dall’art. 1129, co. 3°, cod. civ. configurino altrettante ipotesi di giusta causa per la risoluzione ante tempus del rapporto” (così Cass. SS.UU. 29 ottobre 2004 n. 20957).

Sulla stessa lunghezza d’onda s’è espressa, in passato, autorevole dottrina. In sostanza una lettura coordinata di due norme, ossia gli artt. 1129, undicesimo comma, c.c. e 1725, primo comma, c.c., consente di affermare che l’amministratore, che sia retribuito per l’opera svolta, può ottenere il risarcimento del danno per inadempimento.

E’ bene ricordare che “sulla base della tradizione manualistica costituisce principio reiterato che l’art. 1218 c.c. stabilisce a favore del creditore un’inversione dell’onus probandi, sostanzialmente basata su una presunzione di colpa in capo al debitore inadempiente” (Cendon, 2008, 466 e conf. Cass. SS.UU. 30 ottobre 2001 n. 13533).

In sostanza aderendo a questa impostazione che presenta un chiaro favor per l’amministratore revocato, quest’ultimo, nei fatti, avrà il diritto a non essere revocato senza giusta causa o, qualora ciò accadesse, avrebbe la possibilità di ottenere il risarcimento del danno corrispondente quanto meno alla mancata percezione della retribuzione fino alla cessazione naturale dell’incarico.

Per fare ciò gli basterebbe dimostrare d’essere l’amministratore e di essere stato revocato anticipatamente affermando la mancanza di una giusta causa e quantificando il danno.

Spetterebbe al condominio fornire prova della presenza di una giusta causa rintracciabile anche tra quelle elencate dall’art. 1129, terzo comma, c.c.

Se ne converrà che se dimostrare l’omessa presentazione del bilancio per due anni consecutivi non è cosa difficile, farlo con riferimento ai “fondati sospetti di gravi irregolarità” di cui parla la norma testé citata è cosa tutt’altro che agevole.

Delibere assembleari: effetti della mediazione sulla decorrenza del termine per l’impugnazione

Le controversie in materia condominale rientrano tra quelle per le quali l’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 prevede l’obbligo della mediazione preventiva, pena l’improcedibilità delle domande giudiziali. Il condomino che intende impugnare una delibera assembleare, prima di procedere giudizialmente deve rivolgersi ad un organismo autorizzato dal ministero della Giustizia depositando la domanda di mediazione. Una volta depositata la domanda il mediatore fissa il primo incontro tra le parti. La domanda e la data del primo incontro vengono comunicate all’altra parte a cura della parte istante.

Come stabilito dall’art. 1137 cod. civ., contro le delibere assunte dall’assemblea condominiale contrarie alla legge o al regolamento di condominio, l’impugnazione va proposta entro il termine perentorio di trenta giorni che decorre per i dissenzienti e gli astenuti dalla data della delibera e per gli assenti dalla data della sua comunicazione.

Per impedire la decorrenza del termine decadenziale dei trenta giorni previsto per l’impugnazione delle delibere è sufficiente che il condomino depositi la domanda di mediazione presso l’organismo di mediazione oppure è necessario che entro tale termine il condominio deve ricevere l’invito ad aderire alla procedura di mediazione?

Ad oggi sulla questione non vi è univocità di vedute. Infatti, nell’ambito della giurisprudenza si sono formati due orientanti, l’uno l’opposto dell’altro.

La problematica nasce dal disposto dall’art. 5, comma 6, del D.Lgs. 28/2010 secondo il quale “dal momento della comunicazione alle altre parti, (…) la domanda di mediazione impedisce altresì la decadenza per una sola volta, ma se il tentativo fallisce la domanda giudiziale deve essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale di cui all’articolo 11 presso la segreteria dell’organismo”.

Un primo orientamento ritiene che il termine decadenziale dei trenta giorni si considera rispettato con la ricezione da parte del condominio dell’invito ad aderire al procedimento di mediazione (Trib. Torre Annunziata 3 luglio 2019 e Trib. Milano 4 gennaio 2019, Corte di appello di Milano , 27 gennaio 2020, sentenza 253/2020, Tribunale di Roma, sent. n. 3159/2021).

Un secondo orientamento ritiene, invece, che per il rispetto del termine decadenziale dei trenta giorni è sufficiente il deposito da parte del condomino dell’istanza di mediazione presso il competente organismo, essendo irrilevante a tal fine la ricezione da parte del condominio dell’invito ad aderire al procedimento oltre il predetto termine in quanto l’interruzione di una decadenza si produce con l’attività compiuta da parte del soggetto onerato al compimento della stessa e non da parte di soggetti terzi (Tribunale di Firenze 2718/2016, Tribunale di Sondrio 25 gennaio 2019, Tribunale di Brescia, sent. n. 648/2020).

Nel solco di quest’ultimo orientamento si è inserito di recente il Tribunale di Terni con la sentenza 560/2021, pubblicata l’8 luglio 2021, che nell’ambito di un giudizio di impugnazione di una delibera condominiale ha riget_tato l’eccezione preliminare di decadenza per tardività dell’impugnazione formulata dal condominio convenuto.

Secondo il Tribunale umbro, l’art. 5, comma 6, del D.Lgs. 28/2010, va interpretato, nel senso che l’effetto interruttivo della decadenza si produce sin dal momento del deposito della domanda di mediazione presso l’organismo competente e la successiva comunicazione alle altre parti costituisce una mera condizione per il “consolidamento” di tale effetto.

Un’interpretazione della norma coerente non solo con i principi generali espressi dalla Corte di cassazione e dalla Corte co_stituzionale (si pensi al principio della “scissione” degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, espressione della regola generale secondo cui una decadenza non può determinarsi in ragione del decorso del tempo di un’attività demandata a terzi e sottratta all’ingerenza dell’interessato), ma anche con la normativa comunitaria (articolo 8 della direttiva 2008/52 CE), ha osservato il giudicante, impongono di ritenere che l’interruzione del termine decadenziale per proporre l’impugnazione della delibera si ha con il deposito della domanda di mediazione presso il competente organismo.

Con la sent. n. 2273/2019 emessa nell’ambito di un giudizio di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo (legge Pinto), la Corte di cassazione ha affermato che, sulla base del chiaro tenore letterale del sopra citato comma sesto dell’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 “solo la comunicazione della domanda di mediazione, e non anche il merito deposito della stessa, impedisce il prodursi della decadenza”

Infiltrazioni in condominio: paga anche il danneggiato

Il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno derivante dall’omessa manutenzione di parti comuni del condominio non esonera il condomino danneggiato dall’obbligo di partecipare alle spese di riparazione delle stesse. Questo in sintesi il principio contenuto nella sentenza di Cassazione n. 18187/2021.

Nel particolare, una società, proprietaria del piano terra di un edificio condominiale, subisce dei danni a causa della mancata manutenzione del lastrico solare, costituente corte interna dell’immobile. Nell’agire in giudizio chiede quindi la condanna del Condominio a rimborsarle le spese sostenute per la riparazione dei danni e a risarcirle i danni.

Il Tribunale accoglie le richieste della società, condannando il Condominio a rifondere le spese sostenute da parte attrice e a risarcirla dei danni subiti. La Corte di Appello però, pur confermando la condanna del Condominio, nella motivazione dispone che “nel riparto interno, tutte dette spese vanno suddivise secondo i criteri di cui all’art. 1226 c.c.”.  Per chiarezza, l’art. 1126 c.c dispone che: “Quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico; gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.”

La società però, poco convinta della precisazione del giudice, ricorre in Cassazione ritenendo inaccettabile porre a suo carico l’obbligo di contribuire alle spese di riparazione visto che proprio dall’omessa manutenzione delle parti comuni da riparare le è derivato un danno.

La Suprema Corte però rigetta il ricorso perché la responsabilità della compagine condominiale per i danni arrecati alla società non esclude che la stessa resti gravata dall’obbligo di contribuire alle spese di riparazione, trattandosi di una parte comune dell’edificio condominiale.

Il fatto che la delibera assembleare abbia posto a carico anche della società la sua quota di spese per la riparazione del lastrico solare non contrasta infatti con la condanna al risarcimento del danno in suo favore disposta dal Tribunale.

I giudici di Cassazione ritengono infatti che si debba affermare il seguente principio: “Il condomino, che subisca nella propria unità immobiliare un danno derivante dall’omessa manutenzione delle parti comuni dell’edificio ai sensi degli artt. 1123, 1124, 1125 e 1126 c.c., assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei confronti del condominio, senza tuttavia essere esonerato dall’obbligo, che trova la sua fonte nella comproprietà o nella utilità di quelle e non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile, di contribuire a sua volta, in misura proporzionale al valore della rispettiva porzione, alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla rifusione dei danni cagionati.

Il compenso dell’amministratore di condominio è onnicomprensivo

Ricorda il tribunale di Firenze che il compenso dell’amministratore di condominio viene deliberato al momento della nomina, a pena di nullità della stessa.

Compenso amministratore di condominio

Il tribunale di Firenze con la sentenza n. 441/2021 depositata in data 24/02/2021 ha statuito che il compenso richiesto dall’amministratore in assemblea al momento della sua nomina è omnicomprensivo, ossia deve riguardare tutta l’attività gestoria, non potendo richiedere un compenso ulteriore per lo svolgimento di lavori o per attività connesse alla vita condominiale.

Compensi per amministrazione straordinaria: i fatti

Un condominio di Firenze conveniva in giudizio innanzi al tribunale di Firenze l’ex amministratore chiedendo:

– che venisse accertato e dichiarato che la somma riscossa da quest’ultimo a titolo di compensi per la gestione condominiale 1.10.2015-15.1.2016 non era dovuta, perché non approvata dall’assemblea condominiale, con condanna del medesimo alla restituzione di tale somma in favore del condominio,

– che si accertasse e dichiarasse che la somma riscossa a titolo di compensi per l’amministrazione straordinaria per i lavori di adeguamento antincendio dell’autorimessa condominiale non era dovuta perchè non approvata dall’assemblea condominiale, con condanna del convenuto alla restituzione della stessa in favore del condominio, oltre al risarcimento danni per mala gestio.

Si costituiva in giudizio l’ex amministratore, il quale precisava che il compenso era dovuto nonostante non fosse stato approvato in sede di delibera assembleare e che l’avvenuta approvazione del consuntivo con delibera del 30.11.2015 aveva legittimato la richiesta di compensi dell’amministratore per le ingenti prestazioni straordinarie svolte in favore del condominio.

Compenso amministratore al momento della nomina

Il Tribunale di Firenze ha accolto parzialmente la domanda proposta dal condominio, in quanto a norma dell’art. 1129 comma 14 c.c., il compenso dell’amministratore di condominio viene deliberato al momento della nomina, a pena di nullità della stessa.

Nello specifico, l’amministratore deve presentare in assemblea un preventivo del corrispettivo richiesto e, nel caso in cui vengano svolti lavori straordinari, può chiedere un compenso aggiuntivo, solo quando tale eventualità sia stata prevista nel preventivo presentato in sede di nomina; in ogni caso, il compenso richiesto dall’amministratore in tale sede è omnicomprensivo, ossia deve riguardare tutta l’attività gestoria, non potendo richiedere un compenso ulteriore per lo svolgimento di lavori o per attività connesse alla vita condominiale.

L’amministratore ha, poi, diritto a prelevare il proprio compenso dal conto corrente condominiale, rilasciando fattura, purchè il corrispettivo prelevato sia quello approvato dall’assemblea in sede di nomina o di rinnovo.

Nel caso particolare, oltre a non risultare nessuna approvazione, da parte dell’assemblea condominiale, del compenso richiesto dall’amministratore, il convenuto non ha nemmeno provato di aver presentato il preventivo del proprio compenso al momento della sua nomina o, almeno, nelle successive conferme: ne discende che il diritto al compenso dell’amministratore per la gestione 1.10.2015-15.1.2016 e per i lavori straordinari di adeguamento alla normativa antincendio dell’autorimessa condominiale non può ritenersi maturato e che lo stesso ha illegittimamente prelevato dal conto corrente condominiale la somma dallo stesso richiesta a titolo di compenso, nella misura di Euro 12.904,98 e di Euro 8.674,50, con conseguente obbligo per il convenuto di rimborsarla in favore del condominio , unitamente agli interessi.

Contemporaneamente è stata rigettata la domanda di risarcimento danni perché non provata. In conseguenza del parziale accoglimento delle domande attoree, devono ritenersi sussistenti gravi ed eccezionali ragioni per disporre la compensazione integrale delle spese di lite fra le parti.

Contratto manutenzione ascensore: il condominio paga per il recesso anticipato

Secondo il tribunale di Bologna, è legittima la clausola che prevede il pagamento di una somma di danaro per il recesso anticipato dal contratto e non si tratta di clausola vessatoria

Contratto manutenzione ascensore e recesso

Il Tribunale di Bologna con la sentenza n. 946, pubblicata il 14 aprile 2021, ha stabilito che non deve essere considerata vessatoria la clausola presente nel contratto di manutenzione dell’impianto di ascensore che prevede il pagamento di una somma di denaro per recedere anticipatamente dal contratto.

Prima di esaminare la sentenza in esame dobbiamo precisare che il condominio viene parificato dalla giurisprudenza ad un consumatore, da ciò l’applicazione del codice del consumo anche ai contratti conclusi tra l’amministratore e fornitori del condominio.

Dobbiamo anche, premettere alcune considerazioni sulle clausole cosiddette vessatorie.

La disciplina di riferimento, nel tessuto codicistico, è contenuta agli artt. 1341 e 1342 c.c., rispettivamente dedicati alle condizioni di efficacia delle condizioni generali di contratto e alla disciplina dei contratti conclusi mediante moduli e formulari. In questi casi, il codice (art. 1341 c. 2 c.c., richiamato a sua volta dall’art. 1342 c.c.) prevede una forma di tutela minima del contraente debole, richiedendo in via formale che alcune clausole particolarmente gravose non siano efficaci nei suoi confronti se non approvate espressamente per iscritto e garantire che il contraente, che non abbia predisposto il contratto, sia stato comunque pienamente consapevole della disciplina del rapporto; in sintesi, che abbia quantomeno conosciuto ed accettato gli effetti di quelle clausole che incidono in modo così significativo sul rapporto contrattuale.

L’elenco delle clausole, considerate dal codice come vessatorie, è contenuto all’art. 1341 c. 2 c.c., si tratta di ipotesi in cui il contraente che ha predisposto il contratto ha alleggerito la propria posizione obbligatoria o di garanzia (prevedendo ad esempio limitazioni solo della propria responsabilità o la possibilità di recedere dal contratto o sospenderne l’esecuzione), ovvero ha aggravato quella della controparte contrattuale.

L’elenco appena citato è unanimemente ritenuto dalla giurisprudenza come tassativo e non si ritiene suscettibile, pertanto, di interpretazioni analogiche e/o estensive.

Il Codice del consumo el resto all’ art. 33 D.lgs. 206/2005, in particolare, prevede al primo comma che siano da considerarsi vessatorie, a prescindere dalla buona fede del professionista, le clausole che determinano un significativo squilibrio contrattuale. Che si tratti di clausole presuntivamente o assolutamente vessatorie, ai sensi dell’art. 36 D.Lgs. 206/2005, la conseguenza è la nullità della sola clausola riconosciuta come vessatoria, mentre il contratto rimane in forza (vitiatur sed non vitiat).

Si tratta di una nullità disciplinata come nullità di protezione/nullità relativa, che può essere rilevata d’ufficio dal giudice ed eccepita solo dal consumatore.

Recesso anticipato dal contratto e pagamento “penale”

Una società di manutenzione di ascensore otteneva decreto ingiuntivo nei confronti di un Condominio per il mancato pagamento di una somma di danaro a seguito del recesso anticipato dal contratto. Avverso tale decreto ingiuntivo il condominio si opponeva eccependo la vessatoria della clausola che prevedeva tale indennizzo in quanto ritenuta una penale rientrante nella casistica di cui all’art. 33 del Codice del consumo e che sarebbe stata a sua volta invalida per la mancanza di una doppia sottoscrizione così come previsto dagli artt. 1341 e 1342 c.c.

Il Giudice di Pace, accoglieva l’opposizione presentata dal condominio, ritenendo vessatoria tale clausola.

Di conseguenza, la società di manutenzione di ascensore proponeva appello innanzi al Tribunale di Bologna per i seguenti motivi:

– la clausola dell’art. 10.2 deve essere considerata separatamente dal resto dell’articolo 10; non è una penale ma una multa penitenziale prevista in conformità all’art. 1373 c.c. che, come tale, non rientra tra le ipotesi di clausole vessatorie di cui all’art. 33 D.L.vo 206/2005;

– anche volendo attribuire natura di penale, la clausola di cui all’art. 10.2 (e in generale, l’art. 10) non è da considerarsi vessatoria perché non altera l’equilibrio tra le parti e non è manifestamente eccessiva.

Viene quindi contestata la errata attribuzione, da parte del giudice di prime cure, della natura vessatoria alla clausola in esame: sia perché non di penale si tratta (dunque, clausola estranea ad ogni problema di vessatorietà); sia perché comunque la clausola non sarebbe vessatoria.

Legittima l’indennità per il recesso, non è clausola vessatoria

Da un’analisi complessiva del contratto, emerge che le parti avevano concluso un accordo di durata piuttosto significativa; cinque anni più cinque di rinnovo tacito, previsto ai sensi del punto 9 per una complessiva durata decennale.

Rispetto a tale vincolo temporale, il medesimo punto 9 stabiliva la possibilità di disdetta alla prima scadenza solo in favore del cliente; mentre il punto 10.2 attribuiva sempre al solo cliente la possibilità di recedere anticipatamente, previo pagamento di una indennità.

Tale indennità, tuttavia, era calcolata secondo lo stesso criterio di quantificazione previsto in caso di risoluzione per inadempimento al punto 10.1.

Da qui, si ritiene, nasca l’equivoco circa l’effettiva natura dell’indennità richiesta.

Il contratto è infatti redatto in modo da generare esso stesso l’equivoco, poiché inserisce nello stesso articolo (con la stessa quantificazione sia per la penale sia per il corrispettivo per il recesso) sia ipotesi di penale, sia appunto il corrispettivo per il recesso prevedendo un indennizzo parametrato al numero di mesi per i quali non vi sarebbe stata l’esecuzione del contratto.

Riconosciuta la natura di corrispettivo per il recesso alla indennità richiesta, deve escludersi che la clausola possa essere considerata una penale ovvero possa essere vessatoria.

Difatti, tale clausola, non è contenuta nell’elenco tassativo che il codice considera vessatorie e per le quali richiede il meccanismo della doppia sottoscrizione, pertanto, deve escludersi la vessatorietà della clausola ai sensi della disciplina di cui al codice civile.

Revoca dell’amministratore di condominio prima della scadenza

La Corte di Cassazione con sentenza n. 7874/2021 ha stabilito che l’amministratore ha diritto sia al compenso maturato per l’attività svolta che al risarcimento del danno per l’amministratore di condominio revocato prima del tempo

Infatti, l’amministratore di condominio, che sia stato revocato dall’assemblea prima della scadenza, ha diritto sia al pagamento dell’attività sino ad allora svolta sia al risarcimento dei danni. Così ha statuito recentissimamente la Suprema Corte nell’ordinanza n. 7874/2021, riportando il rapporto contrattuale in discorso all’applicazione della disciplina del mandato (art. 1725 c.c.) invece che a quella del contratto di prestazione d’opera intellettuale (art. 2237 c.c.). L’inquadramento contrattuale è dirimente, poiché, nel caso di specie, inquadrando la fattispecie all’ambito del mandato, si sancisce come l’amministratore abbia diritto al risarcimento del danno, con l’unica eccezione della giusta causa di revoca). In caso contrario, sarebbe dovuto solo il compenso per l’attività effettivamente prestata.

Un nuovo inquadramento contrattuale

Il mandato trae condominio e  amministratore , se questi venisse revocato anticipatamente, comporterebbe una serie di diritti in capo all’amministrazione, quali il diritto al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, nonché il già citato diritto al risarcimento dei danni, tranne che nel caso in cui sussista giusta causa ravvisabile tra quelle che giustificano la revoca giudiziale dell’incarico.

Secondo la Cassazione, gli effetti della revoca dell’incarico di amministratore di condominio non possono trovare la loro disciplina nella fattispecie di cui all’art. 2237 c.c., avente ad oggetto il recesso del cliente nel contratto di prestazione d’opera intellettuale: il contratto concluso tra l’amministratore e la compagine condominiale non costituirebbe prestazione di natura intellettuale.

Il contenuto del rapporto intercorrente tra l’amministratore e i condomini sarebbe dettato dagli articoli 1129, avente ad oggetto la nomina, la revoca e gli obblighi dell’amministratore, 1130, avente ad oggetto le attribuzioni dell’amministratore e 1131 (rappresentanza) c.c. Inoltre, il Codice Civile farebbe espresso riferimento alla disciplina del mandato, applicabile in via residuale (art. 1129 c. 15 c.c. come modificato dalla legge 220/2012, non applicabile ratione temporis al caso in esame) e anche la giurisprudenza si è pronunciata in tal senso (Cass. 20137/2017; Cass. 9082/2014; Cass. 14197/2011).

Contratto di prestazione d’opera intellettuale o mandato?

L’attività di prestazione d’opera intellettuale, come rilevato dalla Suprema Corte, sarebbe subordinata all’iscrizione in un apposito albo o elenco (art. 2229 c.c.). Ora, il contratto tipico di amministrazione di condominio, il cui contenuto è essenzialmente dettato negli artt. 1129, 1130 e 1131 c.c., non costituirebbe invece prestazione d’opera intellettuale, e non sarebbe pertanto soggetto alle norme collegate al relativo contratto dal Codice Civile, in quanto l’esercizio di tale attività non è subordinata, come richiesto dall’art. 2229 c.c., all’iscrizione in apposito albo o elenco. Al contrario lo stesso rientrerebbe nell’ambito delle professioni non organizzate in ordini o collegi, di cui alla legge 14 gennaio 2013, n. 4.

La professione di amministratore, in seguito alla riforma sul condominio di cui alla legge n. 220/2012, sarebbe subordinata solo al possesso di determinati requisiti di professionalità e onorabilità ex art. 71 bis disp. att. c.c., quale professione non organizzata in ordini o collegi ai sensi della legge 4/2013.

Casi di revoca ante tempus dell’amministratore condominiale

Soltanto in caso di revoca per giusta causa l’amministratore non avrebbe diritto al ristoro per il pregiudizio patito.

L’Amministratore di condominio può essere revocato per tutta una serie di casi, ovvero: scadenza dell’incarico, decorso un anno dalla nomina; revoca assembleare durante l’incarico, per giusta causa o senza giusta causa, revoca da parte dell’autorità giudiziaria, per giusta causa.

In merito alle maggioranze richieste, la delibera di revoca viene adottata, analogamente a quanto previsto per la nomina, con il voto favorevole della metà del valore dell’edificio (500/1000) e della maggioranza degli intervenuti ai sensi dell’art. 1136 c. 4 c.c.

Quanto previsto circa i poteri e gli obblighi correlati al contratto di amministrazione condominiale, trasfusi negli artt. 1129, 1130 e 11.31 c.c., si integra con residuale applicazione la disciplina in tema di contratto di mandato. La Corte rileva come l’art. 1129 c.c. si limiti unicamente ad indicare il potere di revoca dell’assemblea senza disciplinarne gli effetti. Ciò comporta che, a livello interpretativo, si possa ricorrere a “norme analoghe che, a proposito della revoca ante tempus, differenziano le conseguenze avendo riguardo alla sussistenza, o meno, della giusta causa di recesso”.

Il mandato si presume oneroso e conferito per un tempo determinato: se la revoca è fatta prima della scadenza del termine di durata previsto nell’atto di nomina, l’amministratore ha diritto, oltre che al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, al risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 1725, c.1, c.c., salvo che a fondamento della revoca sia posta una giusta causa. Detta giusta causa può essere astrattamente individuata tra quelle che giustificano la revoca giudiziale dell’incarico.

Abuso in condominio: intervento dell’amministratore

In caso di abuso commesso da un condomino sulle parti comuni l’amministratore ha il potere-dovere di agire anche senza autorizzazione dell’assemblea

La Corte di Cassazione,  Sentenza n. 7884 del 19 marzo 2021, ribadisce il potere-dovere dell’amministratore di condominio di agire contro l’abuso commesso da un condomino sulle parti comuni. Statuendo che “la denuncia dell’abuso della cosa comune da parte di un condomino rientra tra gli atti conservativi inerenti alle parti comuni dell’edificio che spetta di compiere all’amministratore, ai sensi dell’art. 1130, n. 4, c.c., senza alcuna necessità di autorizzazione dell’assemblea dei condomini”.

Il caso

In seguito all’ingiunzione di ripristinare lo stato dei luoghi, stante l’illegittimità dell’apertura praticata da una condomina nella ringhiera del balcone di sua proprietà, apertura che le consentiva di scendere direttamente nel cortile comune, si era aperto un contenzioso giudiziario tra il condominio, rappresentato dall’amministratore, e la proprietaria. La Corte di appello aveva affermato la sussistenza della legittimazione dell’amministratore, ex art. 1130 c.c., alla azione “negatoria servitutis” esercitata.

La Corte di Cassazione corregge la motivazione dei giudici di secondo grado. Stabilendo che allorquando – come nel caso in esame – oggetto della lite sia l’abuso della cosa comune da parte di uno dei condomini, la declaratoria di illegittimità non è una “negatoria servitutis” – giacché ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità – bensì riguarda il potere-dovere dell’amministratore di agire in giudizio, al fine di costringere il condomino inadempiente alla osservanza dei limiti fissati dall’art. 1102 c.c. In tale ipotesi, l’interesse, di cui l’amministratore domanda la tutela, è un interesse comune. In quanto riguarda la disciplina dell’uso di un bene comune, il cui godimento limitato da parte di ciascun partecipante assicura il miglior godimento di tutti.

La domanda azionata dall’amministratore di condomino in base al disposto dell’art. 1102 c.c., ed avente quale fine il ripristino dello “status quo ante” di una cosa comune illegittimamente contestata da un condomino, ha natura reale. In quanto si fonda sull’accertamento dei limiti del diritto di comproprietà su un bene.

Balconi e frontalini

Quando parliamo di balconi, dobbiamo distinguere quelli aggettanti da quelli incassati.

I balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dell’edificio e costituiscono un prolungamento dell’unità immobiliare, sono di proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti che se ne servono.

I balconi incassati invece sono quelli che non sporgono rispetto ai muri perimetrali, restando incassati nell’edificio condominiale. L’attenzione si sofferma principalmente sul frontalino, che è quella fascia verticale di piccola altezza, che a volte rifinisce sulla fronte una struttura orizzontale aggettante (la parte esterna del parapetto del balcone quella che costituisce una sorta di cornice dello stesso balcone). Il frontalino lo troviamo sia nei balconi incassati, che in quelli aggettanti, ed è proprio in questo caso che sorgono i problemi. Infatti quando si devono effettuare i lavori di manutenzione, ci si domanda a chi debbano essere addebitate le spese per gli interventi sugli stessi.

Natura condominiale dei frontalini dei balconi

Quando si devono effettuare i lavori di manutenzione, ci si domanda a chi debbano essere addebitate le spese per gli interventi sul c.d. frontalino. Tale problematica sorge per il balcone aggettante (cioè quelli sporgenti dalla verticale della facciata dell’edificio) perché sono quelli che appartengono esclusivamente al proprietario dell’appartamento che se ne serve.

Ci si chiede se le spese devono essere sostenute dal proprietario del balcone ovvero dal condominio. Questa questione ha generato negli anni un enorme contezioso. Ormai la giurisprudenza è costante nel ritenere che gli elementi decorativi che caratterizzano la parte frontale del balcone aggettante si debbono considerare beni comuni quando contribuiscono a rendere esteticamente gradevole l’edificio.

Ripartizione delle spese dei frontalini

La Cassazione oggi ritiene che i frontalini appartengono al condominio in quanto elementi estetici e di arredo della facciata. Per cui le relative spese devono essere divise tra tutti i condòmini, anche quelli che affacciano su altro lato del palazzo o quelli che non sono proprietari di balconi (le spese vanno ripartite tra tutti i condomini, secondo i millesimi di proprietà, così come previsto dall’art. 1123 c.c.). Recentemente il Tribunale di Roma con la sentenza n. 915 del 19 Gennaio 2021, ha qualificato le spese da sostenere per il risanamento dei frontalini come “condominiali”.

Tribunale di Roma: frontalini sono condominiali

Con la sentenza n. 915 del 2021, il Tribunale di Roma conferma che i balconi sono una estensione della proprietà individuale, ma contestualmente precisa che si pongono come elementi decorativi esterni che si inseriscono nella facciata. Pertanto, le spese per gli elementi decorativi dei balconi, quando si identificano con la struttura della facciata, vanno ripartite a carico della collettività condominiale, suddivise tra tutti i condomini in maniera proporzionale alle singole quote di proprietà. Questo ragionamento viene fatto anche per i c.d. frontalini e di conseguenza le spese devono essere ripartite tra tutti i condomini, poiché i frontalini vengono considerati elemento imprescindibile della facciata costituendo l’estetica dello stabile allo stesso modo del muro perimetrale dell’edificio con cui si integrano in un rapporto armonico. Lo stesso Tribunale di Roma in precedenti sentenze, ha affermato non essere necessario, affinché i frontalini siano considerati parti comuni, che essi rivestano un particolare pregio architettonico, essendo sufficiente che contribuiscano a segnare le linee ornamentali del fabbricato.

Lastrico solare, spese in caso di danni

I diritti si pagano: chi vanta la titolarità esclusiva del lastrico solare dell’edificio deve rassegnarsi a pagare i danni. Un principio confermato dalla sentenza della Cassazione a Sezioni unite del 10 maggio 2016, n. 9449, riguardante fattispecie della responsabilità per danni derivanti dal lastrico solare esclusivo (esistente in un edificio in condominio).

La Suprema corte, infatti, con la pronuncia 3239 del 7 febbraio 2017 ha affrontato, ancora una volta tale ipotesi dannosa, collocandosi certamente nel solco del precedente intervento ma senza dimenticare di fare anche un passo in avanti nell’ulteriore specificazione interpretativa dell’articolo 1126 del Codice Per cercare di avere un quadro il più sistematico possibile dei complessi principi affermati è opportuno ripercorrere in prima battuta quanto affermato dalle Sezioni unite.

Vediamo in ordine i princìpi da seguire:

a) la responsabilità per l’eventuale danno causato dalle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare esclusivo (o dalla terrazza a livello, sempre esclusiva) va ricondotta nell’ambito dell’illecito extracontrattuale;

b) in ogni caso, non si può ignorare la specificità di tale tipologia di copertura, in quanto, da un lato, la sua superficie, costituisce oggetto dell’uso esclusivo di chi abbia il relativo diritto; e, dall’altro, la sua parte strutturale sottostante costituisce “cosa comune”, perché contribuisce ad assicurare la copertura dell’edificio;

c) diverse sono le posizioni del titolare dell’uso esclusivo sul lastrico solare e del condominio;

d) da una parte, il titolare di tale diritto è tenuto agli obblighi di custodia, ex articolo 2051 del Codice civile, in quanto si trova in rapporto diretto con il bene potenzialmente dannoso;

e) dall’altra parte, il condominio è tenuto (secondo gli articoli 1130, comma 1, n. 4. e 1135, comma 1, n. 4, del Codice civile) a compiere gli atti conservativi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti comuni dell’edificio e della relativa omissione risponde in base all’ articolo 2043 del Codice civile;

f) queste due responsabilità di cui ai punti d) ed e) possono concorrere tra loro;

g) in tal caso, il criterio di riparto previsto per le spese di riparazione o di ricostruzione dall’articolo 1126 del Codice civile (un terzo/due terzi) costituisce un parametro legale rappresentativo di una situazione di fatto, correlata all’uso e alla custodia della cosa, valevole anche ai fini della ripartizione del danno eventualmente cagionato;

h) diversamente, nel caso in cui risulti che il titolare del diritto di uso esclusivo del lastrico solare o della terrazza a livello sia responsabile dei danni provocati ad altre unità immobiliari presenti nell’edificio per effetto di una condotta che abbia essa stessa provocato il danno; ipotesi in cui il titolare del diritto va conseguentemente ritenuto l’unico responsabile.

Da tale impostazione, che ormai può dirsi definitiva, deriva che non possono più essere prese in considerazione le precedenti sentenze della Cassazione che attribuivano la custodia del lastrico solare al condominio (25288/2015), ai condòmini (1674/2015), o addirittura all’amministratore (17983/2014) anche se tale area fosse esclusiva.

In sostanza, per le Sezioni unite del 2016 il «custode» è solo il titolare esclusivo, e non il condominio, il quale risponde, al massimo, per una sua condotta illecita (articolo 2043 del Codice civile), qual è certamente l’omissione di manutenzione.

Una ulteriore pronuncia della Cassazione 3239/2017, oltre a confermare questa impostazione, aggiunge un tassello importante per la valutazione del caso concreto: “per poter attribuire la responsabilità per danni derivanti dal lastrico solare occorre effettuare un’indagine – evidentemente a mezzo di perizia tecnica – sulle specifiche cause dell’evento e se tali cause, in particolare, sono ascrivibili a un concorso di responsabilità oppure a un fatto esclusivo del titolare del diritto di uso (vedasi ipotesi di danni provocati dall’ostruzione alla griglia di scarico delle acque piovane su un lastrico solare di proprietà esclusiva, come da sentenza di Cassazione 26086/2005 )